ACAD

-Associazione Contro gli Abusi in Divisa – ONLUS –

Archivia 3 Dicembre 2017

Abusi di Stato: verità insabbiate, impunità garantita

VENERDI’ 15 DICEMBRE
@Spazio Autogestito Grizzly Fano
via della Colonna 130, Fano (PU), zona campo d’aviazione
ORE 21:15

ABUSI DI STATO: VERITA’ INSABBIATE, IMPUNITA’ GARANTITA

Interverranno:
– Maddalena Benanchi (ACAD Associazione Contro gli Abusi in Divisa – Onlus)
-Diego Piccinelli ( Ultras Brescia 1911 EX-Curva Nord)
-Rudra Bianzino

In questo paese c’è una costante che si ripete negli anni e sembra inarrestabile: è l’abuso in divisa.
Ultima (in ordine cronologico)la vicenda di Luca Fanesi, ultras della Sambenedettese che lotta fra la vita e la morte, entrato in coma a Vicenza in una situazione ancora tutta da chiarire; di certo c’è che sia stato picchiato alla testa mentre scappava da una carica del reparto mobile intervenuto per sedare un momento di tensione fra le opposte tifoserie.
Da questo ultimo fatto accaduto il 5 novembre scorso ci siam interrogati e abbiamo sentito l’urgenza e la necessità di aprire un momento di confronto aperto in cui poter interagire con soggetti diversi.
Saremmo potuti partire da noi, dal fatto che chi fa delle scelte di vita ritenute sopra le righe in questo sistema diventa già di per sé un possibile bersaglio: per essere chiari, per chi è un attivista, un ultras o un soggetto ritenuto non governabile e non obbediente è più facile comprendere quella che spesso abbiamo definito “repressione” perchè è una costante che si vive sulla propria pelle, ma crediamo che il discorso investa le libertà di tanti e tante e non solo di alcune “categorie”.
Quello che ci preme discutere è il fatto che la violenza di certi reparti (celere,secondini e troppi altri ce ne sarebbero…) sono parte del sistema che gestisce l’ordine pubblico in questo paese; tale ordine è costantemente garantito con l’utilizzo della forza che sempre più spesso diventa libero arbitrio e abuso di potere.
Vogliamo ricordare un caso eclatante del settembre scorso, successo a Firenze, in cui due studentesse americane hanno denunciato di essere state stuprate da due carabinieri in servizio, i quali continuano a difendersi non negando il fatto,ma giustificando l’accaduto accusando le ragazze di essere state ubriache e al contempo, a loro dire, consenzienti.
L’ impunità che viene costantemente garantita alle FdO, il disarmante rituale in cui lo stato si auto-assolve con l’insabbiamento dei fatti e con processi-farsa in cui sempre più spesso la vittima diventa un soggetto che “se l’è cercata”, è ormai diventata una regola.
Viviamo in paese in cui si è impiegato anni per far votare al parlamento una legge sul “reato di tortura” che è stata completamente stravolta e annacquata tanto da essere una legge talmente vaga ed opinabile da aver scatenato durissime reazioni da parte di associazioni che si occupano da sempre della difesa dei diritti umani come “Amnesty International” che si è espressa a riguardo dicendo che
“Quella approvata dal Parlamento, che introduce con quasi 30 anni di ritardo il reato specifico di tortura nel codice penale ordinario, non è una buona legge. É carente sotto il profilo della prescrizione. Se la definizione accolta non può soddisfare, l’ipotesi di rinviare per l’ennesima volta, nella vaga speranza che un nuovo parlamento sapesse fare ciò che nessuno dei precedenti aveva fatto, sarebbe servita solo a chi – e sono ancora in molti – il reato di tortura non lo ha mai voluto, senza se e senza ma e in qualsiasi modo definito, considerandolo contrario agli interessi delle forze di polizia”
Il fatto che ci siano blocchi di potere che in questo paese considerino una legislazione adeguata sul reato di tortura e l’introduzione di codici identificativi per i reparti mobili, una lesione nei confronti delle Fdo è indicativo del contesto culturale in cui viviamo .
L’idea di dover costantemente vivere in un clima di paura in cui la sicurezza (che fa rima sempre più con militarizzazione) è diventata un ossessione che lascia libero arbitrio a operazioni repressive su larga scala e nei confronti di buona parte di cittadini è inaccettabile.
Ci sembra una tematica su cui fra soggetti diversi e con esperienze diverse valga la pena discutere, perchè crediamo che non si possa più morire di carcere(spesso per mano dei carcerieri), che non si debba finire reclusi perchè si ha una pianta d’erba in casa, che non si possa morire mentre si esce da uno stadio solo perchè si ha addosso il marchio “ultras” e che non si possa essere aggrediti perché si manifesta contro il G8 come successe nel massacro alla scuola Diaz di Genova.
Questa iniziativa nasce dalla convinzione che non debba più accadere nessun tipo di abuso giustificato dalla macchina del fango dei media che costantemente avvallano il teorema del
“quello che ti è successo te lo sei andato a cercare”.

Contro ogni abuso,
Verità e giustizia per tutte le vittime!
ALL LIVES MATTER!

IMPORTANTE: AGGIORNAMENTO DA REGGIO CALABRIA, PROCESSO SEKINE TRAORE

Si è appena conclusa davanti al GIP di Palmi l’udienza preliminare per l’omicidio di Sekine Traore.
Oggi Sekine Traore, arrivato con un barcone nel 2016, schiavo delle nostre campagne, ridotto alla fame, allo stremo e sfruttato dal nostro Stato capitalista che lo ha reso ultimo tra gli ultimi e poi ucciso con un colpo di pistola sparato da un carabiniere dentro la tendopoli di San Ferdinando (vicino a Rosarno), ha iniziato un processo contro il suo assassino.
Acad “accompagnerà” Traore in questa lunga strada per “rivivere”.
Oggi, con questo fatto che diviene un precedente importantissimo, è stata scritta una nuova e inedita pagina nella lunga storia degli abusi nel nostro paese.
Ma ci rimane un forte amaro in bocca.
I fatti di oggi hanno visto ACAD presente in Udienza con richiesta di costituzione di parte civile.
La difesa dell’imputato si è opposta alla costituzione di parte civile della nostra associazione nonché del cugino di Sekine per “carenza di interesse”.
Il giudice ha ammesso la costituzione di parte civile di ACAD riconoscendo la lesione dei propri interessi derivanti dal reato.
Purtroppo ha rifiutato il cugino.
Quindi la difesa dell’imputato ha chiesto il rito abbreviato condizionato all’esame di tre carabinieri operanti. Procura e parte civile si sono opposte ed il giudice ha rigettato tale richiesta di rito abbreviato.
A seguito delle conclusioni delle parti il giudice ha disposto il rinvio giudizio per l’udienza del 02/05/2018 ma il processo viene spostato al tribunale monocratico, che è solito giudicare reati con pene minori: omicidio per legittima difesa con eccesso colposo.
Sarebbe stato diverso se il capo di imputazione fosse stato idoneo alla realtà dei fatti per rendere piena giustizia a Sekine, perché è stato un omicidio, non un errore.
Ma visti i precedenti, come nel processo per Carlo Giuliani ad esempio, è già importante che il tutto non sia stato archiviato per uso legittimo delle armi.
Oltre all’ amaro in bocca, rimane il risultato ottenuto per Traore e per ACAD che con la costituzione di parte civile sará parte attiva in questo processo.
Ciò diviene un fondamentale evento storico per le migliaia di vittime africane nel nostro mare e nelle nostre campagne.
Traore non ha avuto e forse non avrà mai servizi ai tg, paginoni di giornali, non avrà un popolo -ormai vittima del razzismo più crudele- indignato, ma noi ci siamo e ci saremo.
Per gli ultimi e con gli ultimi.
Anche in tribunale abbiamo oggi il primo ragazzo di colore che da schiavo diventa uomo degno.
È morto per una vita migliore, è morto per noi, per raccogliere le nostre arance, è morto per vivere, ucciso dal braccio armato del nostro Stato.
E oggi in tribunale siamo riusciti ad inchiodare lo Stato italiano alle proprie responsabilità.
Sekine Traore avrà un processo.
Il primo per un “neGro” schiavo ucciso dalle forze “dell’ordine”.
Il made in Italy ha il prezzo della loro vita e il colore del loro sangue.
Ricordiamocelo, sempre, ad ogni spremuta, ad ogni mandarino sbucciato, ad ogni pomodoro, ad ogni kiwi, ad ogni frutto dolce ma amarissimo.
Basta impunità!
Mai più!
Verità e giustizia per Sekine Traore

TekNO Repression

Questo benefit party è stato organizzato in supporto a al coordinamento NoTap (Comitato contro la Trans Adriatic Pipeline), che resiste da mesi a un´iniziativa vergognosa contro il territorio italiano e i suoi abitanti, e all´organizzazione Acad (Associazione Contro gli Abusi in Divisa), che si batte da anni contro l´oppressione perpetuata dal governo sul popolo attraverso le cosiddette “forze dell´ordine”.

– Cos´è la TAP?
La Trans-Adriatic Pipeline é un gasdotto che parte dall’ Azerbaijan passando per la Georgia, la Turchia, la Grecia, l’Albania ed ora approdato in Italia (nella Regione Puglia).
Questo demoniaco progetto che attraversa i paesi ed i mari di mezzo mondo, oltre ad essere altamente nocivo per i territori che lo ospitano, è frutto di svergognati guadagni per le solite lobbie politiche e le affiliate mafie.
In Puglia é stata organizzato un coordinamento di resistenza, per evitare che il gasdotto prosegui fino in nord Italia, attraversando zone ad alto rischio sismico. Terreni privati vengono espropriati, ulivi secolari sono già stati abbattuti e molti altri sono in procinto di esserlo, per far spazio all´ennesimo scempio alla natura e all´infame logica capitalista.

– Sulla repressione:
Nei mesi scorsi la Polizia italiana si é resa autrice dell’ennesima repressione, violando i più basici diritti umani, effettuando dei veri e propri “rastrellamenti” in una zona ad alta concentrazione di giovani e di relativi locali di ritrovo, nel centro di Torino.
Il pugno duro dell’amministrazione Torinese ha letteralmente pestato e distrutto tutto ciò si trovasse sulla loro strada.
Lo stesso è avvenuto a Bologna, dove centri sociali occupati da molti anni, centro di programmi socio-solidali ed artistici, sono stati sgomberati con la forza e contro ogni diritto civile.

Mongolfiere Libere Project ed OSTeRIOT, dedicano il party e i suoi ricavati alle due associazioni, che supportano quotidianamente le battaglie contro questi fatti orrendi e tutte le forme di oppressione e repressione perpetuate con l´aiuto dei manganelli o tramite il potere economico dei colletti bianchi.
Siete tutti invitati a partecipare contribuendo in modo cosciente e consapevole.
Grazie all’informazione si può essere liberi di scegliere e di reagire, e la musica come tutta l’arte può essere un’arma per combattere l’ignoranza in cui ci vogliono far vivere.

ONE STRUGGLE, ONE FIGHT!

Processo Cucchi, i carabinieri fanno melina

Processo Cucchi alla prima udienza. I difensori dei carabinieri imputati per l’omicidio chiedono l’audizione di 271 testimoni per mandare in prescrizione i reati meno gravi

di Checchino Antonini
da popoffquotidiano.it

Processo Cucchi finalmente al via in Corte d’Assise e rinviato all’11 gennaio per sentire i testi citati dal Pm. Il giudice su richiesta del Pm ha disposto la richiesta delle prove testimoniali e subito una perizia per far luce sulla mole di conversazioni telefoniche e ambientali intercettate che finiranno nel fascicolo del dibattimento e ha fissato la prossima udienza riservandosi di decidere sulle liste di testi della difesa. In Corte d’assise ci sono imputati cinque carabinieri. Si tratta di Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, tutti accusati di omicidio preterintenzionale (si tratta dei militari che la procura indica come coloro che arrestarono Cucchi); in più c’è il maresciallo Roberto Mandolini, che risponderà dei reati di calunnia e falso, mentre lo stesso Tedesco, insieme con Vincenzo Nicolardi, di calunnia nei confronti di tre agenti della penitenziaria che furono processati per questa vicenda e poi assolti in maniera definitiva.
Il punto focale dell’udienza è stata la mole di prove testimoniali chieste. «Le liste testimoniali sono sovrabbondanti. È arrivato il momento di finire di fare confusione e di fare chiarezza. È passato fin troppo tempo», ha detto il Pm Giovanni Musarò, riferendosi soprattutto alle liste degli imputati Tedesco e D’Alessandro che contano rispettivamente di 217 e 251 nomi. Osservazioni, queste, condivise dai legali della famiglia Cucchi), e avversate dai difensori degli imputati. Poi, il deposito in aula di una memoria del Pm Musarò redatta per indicare i punti critici nelle liste testimoniali della difesa, ha portato i giudici a rinviare la loro valutazione alla prossima udienza per consentire alle difese di interloquire. Nel frattempo, però, i giudici hanno ritenuto necessario disporre una perizia, nominando tre tecnici ai quali hanno affidato l’incarico di trascrivere 350 conversazioni telefoniche e 12 ambientali. Dovranno elaborare le loro conclusioni entro il 4 gennaio; la settimana dopo, l’11 gennaio, si entrerà nel vivo, con la loro audizione e quella del primo degli investigatori.
Dalle spropositate liste di testi sembra delinearsi una linea scelta di difesa «verso il tranquillo approdo della prescrizione», dice a Popoff, Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi. Una sorta di «melina, quasi a palleggiare in dibattimento», come spiega anche uno degli attivisti di Acad presenti in aula, fino a riuscire a mandare in prescrizione i reati meno gravi. Per ora i giornalisti sono stati ammessi ma ciascuno dei difensori s’è scagliato contro il presunto linciaggio mediatico a cui sarebbero sottoposti i militari imputati solo otto anni dopo i fatti. Un vittimismo che non ha pezze d’appoggio visto che l’Arma fu sottratta allo sguardo degli inquirenti, prima da un proclama perentorio dell’allora ministro della difesa, il postfascista La Russa, poi da un’indagine che provò a declassificare questa faccenda macabra di “malapolizia” a semplice fatto di “malasanità”.
Ilaria: «La verità è in quest’aula, ma non sarà facile farla emergere»
«Ho fiducia che questa volta i responsabili della morte di mio fratello e di anni e anni di depistaggi saranno puniti. La verità è in quest’aula, ma non sarà facile farla emergere. Proveranno a confondere le acque, a dilatare i tempi. Noi siamo pronti a tutto», ha commentato Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E la mamma Rita: «Stefano merita giustizia perché non si può morire così e noi non ci fermeremo mai finché non sarà fatta giustizia. Lo abbiamo promesso a Stefano, davanti al suo corpo massacrato». «È iniziata la litania del vittimismo, del processo mediatico – ha detto l’avvocato storico della famiglia, Fabio Anselmo – ce l’aspettavamo; è la linea che tende a far sentire in colpa i giudici. Adesso ci aspettiamo le lamentele su un processo ‘già deciso’, e sappiamo che si tenterà di fare l’ennesimo processo a Stefano e alla sua famiglia. Non ci presteremo a questo gioco né al tentativo di far passare il concetto che per noi sul banco degli imputati c’è l’Arma dei Carabinieri. Non è così. L’Arma tutela le Istituzioni, non le tradisce».

Le tappe di una lunga inchiesta
Solo dopo molti anni, alla fine del 2015, venne fuori che un violentissimo pestaggio toccò a Stefano Cucchi già nella notte dell’arresto da parte di alcuni carabinieri del comando della stazione Appio che spuntò solo sei anni dopo nella ricostruzione dell’omicidio.
Solo nel luglio scorso fu certo che la vicenda sarebbe tornata in Corte d’assise la vicenda della morte di Stefano Cucchi, il geometra romano che nell’ottobre 2009 morì in ospedale una settimana dopo il suo arresto per droga. Settimana di calvario, secondo l’accusa, iniziata nell’opacità di una guardina dei carabinieri, dettagli di una notte spariti dagli atti per anni, finché la polizia giudiziaria non ha raccolto le testimonianze di due carabinieri e intercettato le confidenze di altri militari coinvolti e da oggi imputati. Il gup capitolino, Cinzia Parasporo ha disposto un nuovo processo nei confronti di alcuni membri dell’Arma che arrestarono Cucchi e che, per l’accusa, sarebbero i responsabili di un ‘pestaggio’ che il giovane avrebbe subito. Ci fosse una legge decente si potrebbe definire tortura ma le malizie bipartizan hanno annacquato un testo già ambiguo proprio poche ore prima della decisione del gup. Otto anni saranno passati dalla morte quando nell’aula bunker di Rebibbia rientreranno i familiari di Cucchi. In cerca di frammenti di verità e pezzetti di giustizia.
Con un documento di 50 pagine, la Procura aveva chiesto alla fine del 2015 la riapertura del caso, con un incidente probatorio, con un documento di 50 pagine per ricostruire tutti i fatti che hanno preceduto la morte di Cucchi, avvenuta il 22 ottobre del 2009 all’ospedale Pertini, «dopo aver subito nella notte tra il 15 e 16 ottobre un violentissimo pestaggio da parte dei carabinieri appartenenti al comando stazione Appia». Riemergeva con forza quello che era parso subito chiaro dalle primissime ricostruzioni e dalle evidenti contraddizioni dei carabinieri durante la prima inchiesta. Ma all’epoca, con un proclama perentorio, parve a tutti che il ministro della Difesa La Russa fosse intervenuto a gamba tesa per tenere lontana l’Arma da un’inchiesta.

Pestaggi e depistaggi
Imputati per il pestaggio di Cucchi i carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco indagati per lesioni aggravate e, per falsa testimonianza altri due carabinieri Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini.
Nella ricostruzione dell’accaduto e soprattutto sulle lesioni subite da Stefano Cucchi nelle carte si scrive che a pestarlo furono i carabinieri D’Alessandro, Di Bernardo e Tedesco. Il pestaggio avvenne in un arco temporale certamente successivo alla perquisizione domiciliare eseguita nell’abitazione dei genitori dello stesso Cucchi, un pestaggio che «fu originato da una condotta di resistenza posta in essere dall’arrestato al momento del fotosegnalamento presso i locali della compagnia Carabinieri Roma Casilina». Qui subito dopo la perquisizione domiciliare si legge nel documento Cucchi era stato portato. Secondo la ricostruzione fatta dal magistrato una volta nella caserma Casilina «fu scientificamente orchestrata una strategia finalizzata a ostacolare l’esatta ricostruzione dei fatti e l’identificazione dei responsabili per allontanare i sospetti dei carabinieri appartenenti al comando stazione Appia». In particolare nella ricostruzione decisa dai carabinieri «non si diede atto della presenza dei carabinieri Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo nella fase dell’arresto di Stefano Cucchi. Il nominato dei due militari infatti non compariva nel verbale di arresto, pur essendo gli stessi pacificamente intervenuti già al momento dell’arresto e pur avendo partecipato a tutti gli atti successivi».
Nel documento della Procura si sottolinea poi che «fu cancellata inoltre ogni traccia di passaggio di Cucchi dalla Compagnia Casilina per gli accertamenti fotosegnaletici e dattiloscopici al punto che fu contraffatto con bianchetto il registro delle persone sottoposte a fotosegnalamento». Poi si aggiunge che nel verbale di arresto non si diede atto del mancato fotosegnalamento e che Stefano Cucchi «non fu arrestato in flagranza per il delitto di resistenza a pubblico ufficiale perpetrato nei locali della compagnia carabinieri di Roma Casilina, nè fu denunciato per tale delitto. Omissione che può ragionevolmente spiegarsi solo con il fine di non fornire agli inquirenti alcun elemento che potesse spostare l’attenzione investigativa sui militari del comando stazione carabinieri di Roma Appia». Secondo il pubblico ministero fu taciuto agli altri carabinieri che avevano partecipato all’arresto di Cucchi.
Quei carabinieri sapevano di essere intercettati e «valutavano e suggerivano varie modalità per eludere operazioni tecniche in corso», si legge nell’informativa della Squadra mobile di Roma, finita nel fascicolo del gip che fissò l’incidente probatorio.

I carabinieri sapevano di essere intercettati
Due le modalità “suggerite” da alcuni degli indagati per eludere le intercettazioni alle quali temevano di essere sottoposti: l’utilizzo di “telefoni citofono” con utenze intestate a terzi estranei, e l’utilizzo dell’applicazione di messaggistica istantanea ‘Telegraf’ che consente di autocancellare i messaggi dopo l’invio. Nelle carte del fascicolo (si tratta di circa 3000 pagine), tante sono le intercettazioni trascritte degli indagati nell’inchiesta bis (si tratta di tre carabinieri indagati per lesioni aggravate e due carabinieri indagati per falsa testimonianza). Cucchi «non c’aveva niente? solo che non si drogava, non mangiava e non beveva il cuore si è fermato. Fratello, è questa la realtà». Così Roberto Mandolini, uno degli indagati. «’Sto ragazzo valeva un milione trecentoquarantamila euro che era un tossicodipendente? (alludendo al risarcimento pagato alla famiglia dal Pertini all’esito del primo processo. ndr)? Quando gente fa incidenti stradali… muoiono bambini che hanno una vita davanti che possono diventà scienziati e possono guadagnare molti soldi», dice invece Raffaele D’Alessandro, altro carabiniere.
Nello stesso dialogo intercettato, il carabiniere (che è uno dei due indagati per falsa testimonianza) parla con Raffaele D’Alessandro, indagato anche lui ma per lesioni aggravate. «Stava sotto dosaggio di antidolorifici… non lo so – dice – La diagnosi per la sua patologia non era nessuna assunzione di farmaci bensì solo riposo, quindi non c’aveva niente». E, confrontandosi con il collega sulle possibili cause di morte di Cucchi, «le perizie mediche dicono questo: che quella microlesione alla parte dietro, all’osso sacro, vista la sua magrezza può essere dovuta anche a una seduta forte». Una tesi, che viene anche spiegata dal carabiniere: «Cioè tu ti metti seduto fortemente no… e un caso su 55 milioni di casi ad un fisico così debilitato quella botta che può dare con la seduta quel picco di dolore può provocare un arresto cardiaco entro mezz’ora… lui è morto dopo una settimana».

La testimonianza dell’ex detenuto
Dalla lettura delle trascrizioni delle telefonate, c’è chi ipotizza un possibile movente del «violentissimo pestaggio». Un nuovo testimone, ascoltato per la prima volta dalla Procura di Roma nel novembre 2014 – Luigi L. di 46 anni, considerato attendibile dagli inquirenti, un ex detenuto che incontrò Cucchi nell’infermeria di Regina Coeli all’indomani dell’arresto racconta che era detenuto nella cella numero 3 al reparto Medicina dove vide passare Stefano «con la “zampogna” (gli effetti forniti dal Dap): bacinella, coperta, spazzolino ecc…). «Ricordo che si fermò davanti alla guardiola e io, quando lo vidi, immediatamente gli chiesi: “Chi ti ha ridotto così?”. Cucchi alzò gli occhi al cielo e non mi rispose; forse ebbe paura a rispondere davanti all’agente della polizia penitenziaria, ma ritengo che fosse una paura infondata. Aveva il viso tumefatto… era evidente che era stato picchiato. Aveva tutto il viso gonfio, anche all’altezza del naso. In passato ho visto tante persone picchiate, ma non avevo mai visto nulla del genere». Il giorno appresso, Luigi avrebbe rivisto Stefano: «Ricordo che non riusciva quasi a parlare, né a prendere il caffè, per come era ridotto. Aveva un forte dolore all’altezza della guancia destra… Aveva dolori dappertutto. Io in passato ho avuto diversi problemi con la polizia penitenziaria, per cui dissi al Cucchi che se era stata la Penitenziaria a ridurlo in quelle condizioni noi avremmo fatto un casino… Cucchi mi rispose che era stato picchiato dai carabinieri all’interno della prima caserma da cui era transitato nella notte dell’arresto. Aggiunse che era stato picchiato da due carabinieri in borghese, mentre un terzo, in divisa, diceva agli altri due di smetterla. Quando mi disse di essere già comparso davanti a un giudice, io gli chiesi la ragione per la quale non avesse denunciato in aula quanto accaduto, ma lui rispose che non l’aveva fatto perché dopo l’udienza sarebbe stato preso in carico nuovamente dai carabinieri che lo avevano arrestato, i quali, se avesse denunciato, lo avrebbero picchiato di nuovo. Chiesi a Cucchi quale fosse stata la ragione di un pestaggio così violento e lui rispose: “Perché, non lo sai? E che dovevo fare, tu l’avresti fatto?”. A quel punto compresi cosa intendeva dire e gli chiesi se gli avessero proposto di fare la fonte confidenziale (la “spia”) e lui aveva rifiutato; il Cucchi mi fece intendere che le cose erano andate così e rispose: “Più o meno è andata come dici tu”. A quel punto gli feci i complimenti e gli dissi: “Per me sei stato un grande”». Quando Stefano si tolse la maglietta restò impressionato, «sembrava una melanzana. In particolare faceva impressione la colonna vertebrale, che era di tanti colori (giallo, rosso, verde); aveva ecchimosi dappertutto».

I due carabinieri in borghese
Nell’informativa allegata alla richiesta di incidente probatorio, firmata dal capo della squadra mobile Luigi Silipo – Luigi L. «faceva riferimento a una circostanza che, nel momento in cui rendeva la dichiarazione, era ignota: il fatto che Cucchi avrebbe avuto un contatto diretto con due carabinieri in borghese». Un dettaglio svelato solo dalle nuove indagini; i due in borghese non comparivano nemmeno nei verbali d’arresto, non erano stati interrogati durante la prima inchiesta né al processo, e ora sono fra i nuovi indagati.
Il maresciallo Roberto Mandolini – all’epoca dei fatti comandante della stazione dei carabinieri Roma Appia, ora indagato per falsa testimonianza – rivela a una sua interlocutrice che Cucchi in altre occasioni era stato collaborativo con i carabinieri: «Perché qualche nome gliel’ha fatto, e gli ha fatto fare altri arresti». Un particolare che Mandolini non riferì al processo, come tacque sui altri dettagli che gli avrebbe riferito lo stesso Cucchi; per esempio i presunti cattivi rapporti tra Stefano, i genitori e la sorella «che da due anni non gli faceva vedere i nipotini». Ma chi è la misteriosa interlocutrice? Una delle possibilità è che Mandolini, sapendo di essere intercettato, può aver tentato di screditare la figura del detenuto morto. Anche perché Stefano, nel periodo immediatamente precedente all’arresto fatale, era stato a lungo in comunità e da lì non era facile fare la spia.

Forza Luca!

Luca dal 5 novembre lotta tra la vita e la morte. Luca, riferiscono i testimoni, ha subito forti violenze dalla celere che lo ha manganellato in testa fino a ridurlo in coma.
Come sempre la macchina del fango sta tentando di infangare il nome di Luca e insabbiare la notizia.
Luca sarebbe caduto da solo, come Stefano, federico, Paolo e tutti gli altri.
Noi non lo permetteremo.
Riceviamo e pubblichiamo questo appello.
FORZA LUCA!
“Luca Fanesi è un ultras della Sambenedettese di 44 anni padre di due figli piccoli che durante alcuni scontri in Vicenza-Samb è stato preso a manganellate in testa dalla celere. Luca è in coma in un ospedale vicentino da quel momento. La sua famiglia accorsa a Vicenza per stargli vicino è supportata in tutto e per tutto dalla stessa tifoseria del Vicenza. Nessuno ne parla, ne i media locali ne i media nazionali. Le forze dell’ordine stanno cercando di insabbiare tutto facendo passare l’accaduto come una caduta accidentale ma tutti hanno visto. Fai girare la notizia a tutti i tuoi “fratelli”.”

Presentazione del libro “Lo sparo nella notte. Sulla morte di Davide Bifolco ucciso da un carabiniere

Giovedì 16 novembre 2017
zam (via sant abbondio 4 MIlano)

presentazione del libro di Riccardo Rosa
LO SPARO NELLA NOTTE. SULLA MORTE DI DAVIDE BIFOLCO UCCISO DA UN CARABINIERE
(Edizioni Napoli MONiTOR)

Ne discutiamo con:
Riccardo Rosa (autore)
Flora e Gianni (mamma e papà di Davide)
ACAD (associazione contro gli abusi in divisa)

Il libro ricostruisce gli eventi che hanno portato alla morte di Davide Bifolco, sedicenne ucciso al Rione Traiano, nella periferia ovest di Napoli, da un agente in servizio, al termine di un inseguimento. Ripercorrendo quanto accaduto quella notte e nei giorni immediatamente successivi, analizzando il ruolo e i comportamenti assunti di chi ha avuto il compito di raccontare i fatti, soffermandosi sui dettagli processuali e attraverso le storie di vita di Davide, dei suoi familiari e degli abitanti del quartiere, il volume mette in relazione l’omicidio con il contesto in cui è avvenuto, provando a capire come sia stato possibile un capovolgimento di ruoli tale da trasformare la vittima in colpevole.