ACAD

-Associazione Contro gli Abusi in Divisa – ONLUS –

Rumore contro gli abusi. Si gira Noise, per Acad

Intervista a Carmine Cristini, il regista del cortometraggio Noise per Acad. Il corto è interamente girato in un braccio carcerario, ci cala in una realtà alla quale nessuno vuole pensare, una realtà sulla quale vogliono far calare il silenzio.

Cos’è ACAD?
Associazione Contro gli Abusi in Divisa, una onlus nata all’incirca tre anni fa, da un gruppo di attivisti che da anni si occupano di abusi commessi dalle forze dell’ordine. Sostanzialmente di sostegno alle vittime e alle famiglie delle vittime che hanno subito abusi, dal supporto legale alla divulgazione delle notizie spesso tenute nascoste; al numero verde di pronto intervento (800588605) attivo 24 ore su 24 per denunciare e chiedere supporto immediato

Da dove nasce l’idea di un cortometraggio per Acad?
Ho pensato a qualcosa che potesse smuovere l’attenzione sul reato di tortura che in Italia reato ancora non è. Qualcosa che con un linguaggio diverso e fruibile a tutti mettesse al centro un problema che non possiamo rifiutarci di vedere

Di cosa parla Noise?
Noise significa “rumore” e noi vogliamo fare rumore. Il corto è interamente girato in un braccio carcerario, ci cala in una realtà alla quale nessuno vuole pensare, una realtà sulla quale vogliono far calare il silenzio.

La realtà carceraria?
Certo e non solo. La concezione punitiva e non rieducativa, del nostro sistema carcerario che fonda le sue radici nell’atavica legge del taglione, è inaccettabile. La finta evoluzione della società è chiaramente visibile nell’involuzione del nostro sistema carcerario. Se “il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”, direi che visti i fatti, le misurazioni della nostra società sono evidenti. Il massimo della civilizzazione è una società senza carceri. La cosa che sconvolge di più è il finto pudore dietro il quale si mascherano le peggiori inumanità commesse, quasi fosse un dovere abusare e torturare colui che ha sbagliato, tutto per tacito accordo in silenzio. E noi invece facciamo rumore.

Chi vi aiuta a fare … rumore?
Abbiamo pensato ad artisti vicini ad Acad, a professionisti conosciuti della scena romana e non che non hanno paura di metterci la faccia. Da qui è nata la collaborazione con disegnatori e tatuatori che hanno realizzato appositamente per Noise locandine e con attori e rapper che interpretano Noise

Nomi famosi?
Sono un gruppo di oltre 30 interpreti, senza contare le “maestranze” anche loro professionisti di un certo calibro, una crew di oltre 70 persone che lavora da oltre quattro mesi a questo progetto, direi che non sono famosi, sono eroi

Come finanziate tutto questo?
Acad come detto prima è una onlus e tutto il lavoro che facciamo è frutto di attivismo, non esistono casse a cui attingere. Abbiamo organizzato e stiamo ancora organizzando iniziative di finanziamento, cene a sottoscrizione, reading teatrali, concerti, tutti realizzati grazie agli interpreti e alla crew di Noise e di Acad.

Da popoffquotidiano.it

Genova, migrante già ferito e in manette. Pestato dai carabinieri?

La denuncia al numero verde di Acad. L’uomo sarebbe stato pestato mentre già era immobilizzato e ammanettato. Con le manette è stato caricato in ambulanza e portato a Marassi
di Ercole Olmi

Si sentiva urlare di dolore l’altra notte a Genova, fino ai piani alti dei palazzi di fronte alla Stazione Marittima, nonostante Piazza Dinegro sia sempre squarciata dal rumore del traffico genovese. Era mezzanotte e due persone si sono affacciate per capire chi fosse così straziato da implorare di smetterla di fargli male. Dalla finestra si vedevano due uomini, dietro al furgone bianco nella foto, alle prese con una terza ormai a terra. I due infierivano. Sembrava una rissa tra balordi ma poi i testimoni hanno capito che si trattava di due carabinieri. A terra, l’uomo destinatario della gragnuola di pugni e calci, era ammanettato! I due chiamano il numero verde di Acad e raccontano inorriditi che, anche mentre si attendeva l’intervento dell’ambulanza, uno dei due carabinieri, a turno, si staccava dal gruppo di uomini in divisa per andare a somministrare un altro calcio o assestare un altro pugno al malcapitato. Sul luogo, infatti, erano accorse altre due auto: una di polizia, l’altra di vigili. Ammanettato, l’uomo ferito è stato caricato sull’ambulanza e forse trasportato direttamente al carcere di Marassi. Era la notte del primo agosto. Quando i testimoni scendono in strada non possono fare altro che fotografare le pozze di sangue sull’asfalto e formulare il numero verde dell’associazione contro gli abusi in divisa.
Il mattinale dei carabinieri, il giorno appresso, comunicherà l’arresto per “resistenza a Pubblico ufficiale” (succede spesso che un pestato si veda comminare una simile accusa) e la denuncia per “ lesioni personali aggravate e violazione di domicilio” di un cittadino marocchino di 35 anni, senza fissa dimora e pregiudicato. Verso le ore 20.30, i militari sono intervenuti su richiesta del personale sanitario dell’ospedale “Galliera”, in quanto il 35enne straniero si era presentato con una ferita da taglio ad un braccio, poi giudicata guaribile in 10 giorni, dando anche in escandescenze. Nel frattempo, durante la medicazione, all’interno della apposita sala, con mossa fulminea, l’uomo era riuscito ad allontanarsi facendo perdere le proprie tracce. Il fuggitivo, in via Aspromonte, ha poi aggredito un 76 enne genovese, mentre stava rincasando, allo scopo di nascondersi nel giardino e sottrarsi dalle ricerche dei militari. L’anziano ha riportato lesioni guaribili in 30 giorni. L’uomo è stato poi rintracciato e bloccato in piazza Dinegro, dopo un lungo inseguimento a piedi, al termine del quale ha strattonato un carabiniere nel vano tentato di divincolarsi. L’arrestato è stato associato al carcere di Marassi. Dunque, se stiamo descrivendo lo stesso episodio, l’uomo era già ferito a un braccio prima di essere sottoposto al trattamento quantomeno “energico” dei due militari. Un arresto, probabilmente legittimo, tramutato in un pestaggio illegittimo. Tanto la vittima è un migrante senza dimora. Chissà se al Garante dei detenuti della Liguria viene voglia di vederci chiaro. Acad sta tentando un accertamento.

Da popoffquotidiano.it

Condannato il carabiniere che uccise Bifolco

Quattro anni e quattro mesi al carabiniere che uccise Davide Bifolco, diciassette anni, incensurato, disarmato, ucciso in un inseguimento ancora da chiarire
di Checchino Antonini

Condannato a 4 anni e 4 mesi Giovanni Macchiarolo, il carabiniere che, nella notte tra il 4 e il 5 settembre 2014, uccise il 17enne Davide Bifolco al termine di un inseguimento nel Rione Traiano a Napoli. La sentenza è stata emessa al termine del processo con rito abbreviato, ed è stata accolta dalle proteste dei familiari del giovane e di un gruppo di manifestanti all’esterno del Palazzo di Giustizia di Napoli. «Assassini» e «Davide vive con noi» sono i cori rivolti alle forze dell’ordine disposte davanti all’entrata per impedire l’accesso.
«Per quello che era il compendio investigativo, sul quale mi sono espresso in maniera estremamente critica, è andata molto bene». Così Fabio Anselmo, legale della famiglia di Davide Bifolco e anche di altre famiglie vittime di malapolizia (da Aldrovandi a Cucchi, da Budroni a Magherini ecc…). È una pena «più grave ancora di quella chiesta dallo stesso pm, vicina al massimo in regime di rito abbreviato – aggiunge Anselmo – somiglia molto a una pena più per delitto volontario che colposo». Per Anselmo però, per quanto riguarda le indagini, «si poteva e si doveva fare di più. Migliori indagini avrebbero fugato ogni dubbio. Leggendo gli atti di indagine ho provato tanto imbarazzo. Sono innamorato della giustizia, della divisa, dei Carabinieri, dei giudici e dei pm, ma quando vedi atti di questo genere provo tanta rabbia e amarezza. I rilievi di quella notte non danno conto di nulla».
Luci e ombre, dunque, al termine del primo capitolo di questa vicenda giudiziaria. La battaglia per verità e giustizia di un pezzo della città è certamente all’origine di questo processo mentre i giornali compiacenti erano alle prese con la costruzione della criminalizzazione della vittima tipica di ogni caso di malapolizia. Da quel giorno di settembre Napoli è spaccata tra chi chiede che cessi la violenza dello Stato e chi costruisce una cortina di menzogne per coprire un omicidio, per proteggere istituzioni latitanti e incapaci di autoriformarsi. Fa parte, forse suo malgrado, di questa seconda corrente anche chi – solo pochi giorni fa – dalle colonne di un blasonatissimo quotidiano nazionale ha voluto insinuare che i centri sociali che contestavano una messa in scena di Renzi a Bagnoli fossero «più o meno infiltrati dalla camorra». A giudicare dagli articoli di nera e di giudiziaria l’unico soggetto che a Napoli è davvero implicato con le cosche è il Partito della Nazione nelle sue articolazioni di “sinistra” – il Pd – e in quelle di destra più o meno estrema.
L’uccisione di Davide Bifolco ha scatenato, invece, le urla di dolore dei rioni popolari da sempre incastrati nella morsa convergente della criminalità organizzata e del braccio violento di una legge a senso unico. Anche stavolta è stato importante il ruolo di Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa, nel sostegno concreto alla famiglia Bifolco e nella campagna di controinformazione.

Da popoffquotidiano.it

Ecco chi è il Dino dei manifesti. E’ una vittima di malapolizia

Nella notte un secondo manifesto sui muri di Roma. Si tratta di una campagna di Acad a ridosso dell’appello per l’omicidio di Dino Budroni. Sua sorella Claudia e Fabio Anselmo alla Camera
di Checchino Antonini da popoffquotidiano.it

«Dino è morto con le mani alzate dopo lo sparo di un poliziotto», «Con un colpo al cuore», «Dino era disarmato», «Freddato con un colpo al cuore». Nella notte sono spuntati altri manifesti sui muri di Roma e hanno chiarito il piccolo mistero che la prima ondata di manifesti «Lo sai cos’è successo a Dino?» aveva sollevato in città e sul web. Si tratta di una campagna di Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa, a ridosso dell’apertura, il prossimo 4 aprile, del processo d’appello per l’omicidio di Dino Budroni. Oggi sua sorella Claudia e il suo legale Fabio Anselmo, sono alla Camera dei deputati per una conferenza assieme ad Acad e al parlamentare Daniele Farina della commissione Giustizia.
Aveva fretta il giudice romano che, nel luglio 2014, ha assolto il poliziotto che ha sparato a Dino Budroni, doveva cambiare incarico, aveva fretta – probabilmente – di togliersi quel fardello di processo rognoso: un omicidio commesso da una persona con la divisa ai danni di un cittadino senza divisa che, perdipiù, aveva commesso quella notte un bel po’ di reati. Ma quando gli spararono, probabilmente era fermo.
Tre anni prima, il 30 dello stesso mese, Budroni era stato ucciso sul Raccordo anulare. La lettura della sentenza è stata un lampo tagliente per chi era lì ad attendere la sentenza. Un’ora e mezza di camera di consiglio e quella parola, «assolve», prima che il giudice sparisse nei meandri della città giudiziaria. Novanta giorni dopo le motivazioni, undici pagine, sembrano una memoria dei difensori dell’agente, un ragazzo di trent’anni che nemmeno doveva trovarsi lì, quella notte, al posto accanto al guidatore. L’autista della Volante 10 doveva essere lui e non avrebbe sparato. Lui dice che avrebbe sparato perché la macchina di Budroni, che inseguiva da una ventina di chilometri, gli sarebbe potuta sgusciare ancora con una manovra repentina. A un suo collega è parso di sentire lo sparo nella fase del rallentamento, «ad una velocità diminuita ma ancora ragguardevole, forse di circa cento all’ora». Ma un carabiniere ha dichiarato, ed è agli atti, che appena sentito i colpi «ci siamo fermati… girandomi ho visto il Budroni che era seduto». Il nodo è questo, uno dei nodi, almeno. Budroni era in corsa oppure era incastrato? «Budroni si è buttato sulla destra con l’intenzione, probabilmente, di prendere quell’uscita; io così ho avuto il modo di stringerlo contro il guardrail costringendolo a rallentare fino a fermarsi». Fino a fermarsi.
Le sentenze si rispettano, così si usa dire. Ma chi ha letto queste parole del conducente della gazzella dei carabinieri e le carte del pm non riesce a farsi una ragione delle motivazioni dato che ha stampata in mente la posizione di tre vetture (una dei carabinieri di traverso, una della polizia a sinistra – la volante 10 – e l’altra dietro la Focus di Dino Budroni ormai incastrata e di traverso, a pochi millimetri dal guardrail di destra e a pochi centimetri da quella davanti, dei CC). Ad esempio quando si legge: «In ragione del tenore della ricostruzione dell’episodio fornita dai predetti CC risulta inoltre incontrovertibile che il Budroni, dopo essere stato colpito, è riuscito ad arrestare la sua Focus, inserendo addirittura e verosimilmente la prima marcia e il freno a mano, e ad alzare le mani, in seguito all’intimazione rivoltagli dal CC Giudici, prima di accasciarsi sul sedile di destra». Chi ha assolto il poliziotto ritiene che l’imputato abbia davvero inteso colpire la ruota posteriore sinistra della Focus e che si sia deciso a sparare solo alla fine di un lungo inseguimento «una volta resosi conto del folle comportamento del predetto». Ma come? Il carabiniere sembra preciso quando dice che «ci siamo fermati, direi quasi contemporaneamente all’arresto dei veicoli ho sentito due colpi di pistola… mi ponevo proprio davanti la vettura di Budroni. Vedevo il Budroni immobile e mi parve alzare le mani in segno di resa, subito dopo però lo stesso si è accasciato». Era fermo, pare. Erano ormai fermi.
Chi pensa, ad esempio i familiari, che una sentenza del genere abbia ucciso una seconda volta Budroni, non riesce a capire perché quello sparo. Lo hanno detto i periti, i legali di parte civile (che sono Fabio Anselmo e Alessandra Pisa, veterani dal caso Aldrovandi di processi come questo e ora alle prese con i casi Cucchi e Magherini), la pubblica accusa che ha sostenuto che l’agente ha sparato male, ha sparato due volte, ha sparato quando non era necessario, senza che glielo ordinasse nessuno.

Il pm aveva chiesto due anni e sei mesi. Pochi per Anselmo, legale dei familiari della vittima, che aveva provato a dire che non fu eccesso doloso perché non è vero che l’agente sparò in rapida successione: le macchine erano ferme e l’angolazione degli spari dimostrerebbe che non si può liquidare la morte di un uomo come eccesso in un’azione legittima. Ma il difensore del poliziotto ha sostenuto che l’auto di Budroni correva ancora quando il suo cliente ha sparato. Due film completamente diversi ma al giudice è talmente piaciuto il secondo che nelle motivazioni della sentenza non sembrano esserci tracce dell’impianto e delle ragioni della pubblica accusa. E, invece, si dilunga, nella brevità complessiva, nella descrizione di quanto accaduto venti chilometri più a sud del luogo del delitto, quando Dino era così fuori di sé da minacciare gravemente la sua ex convivente e danneggiare il suo portone.
Servirà quella descrizione per sostenere che sparare era una mossa «adeguata e proporzionata» al contesto, per interrompere «quel comportamento di grave e prolungata resistenza». Ma in tanti dicono che era ormai già fermo, che la missione era compiuta si sarebbe potuto dire con successo, senza nemmeno brandire le armi.
In casi come questi la formula magica è «uso legittimo delle armi» perché il comportamento di Budroni è «indubbiamente da qualificare come una reiterata resistenza caratterizzata da entrambi gli elementi della violenza e della minaccia perpetrata nei confronti degli agenti». Le motivazioni dicono che la posizione del corpo al momento in cui fu colpito, era quella di chi sta per sterzare a destra per fuggire. Ma era già incastrato e pressoché fermo e pare impossibile che in quella posizione potesse essere una minaccia per il traffico blando di quelle ore dell’ultima parte della notte: la macchina, sul lato del paracarri non ha un graffio, dall’altra ha i segni del contatto con le volanti. La radio di bordo ha registrato le voci degli agenti: «Vagli addosso!». Le motivazioni dicono il contrario, che «il Budroni tentava di collidere con improvvise sterzate finché non impattava con la Beta Como», l’altra auto della polizia.
Il processo d’appello vedrà di nuovo le parti scontrarsi sulla domanda cruciale: era davvero necessario sparare quella notte? E poi perché Dino ha dovuto subire un processo da morto: un decreto penale del Tribunale di Tivoli, infatti, lo ha condannato nel marzo del 2014 al pagamento di un’ammenda di 150 euro, perché in casa aveva una carabina ad aria compressa e una balestra con frecce a punta metalliche non denunciate. Che fine ha fatto l’articolo 150 del Codice Penale, secondo cui la morte del reo estingue il reato?

Italia anomala: la legge non è uguale per tutti. La tortura sì

La delegazione di Acad a Bruxelles ospite del Gue proprio nel giorno in cui la capitale belga è sconvolta da un’operazione antiterrorismo.
da Bruxelles, Checchino Antonini popoffquotidiano.it

Una missione straordinariamente difficile quella di Acad a Bruxelles, ospite del Gue per un’audizione sull’anomalia Italia: paese guida, in Europa, per i casi di tortura (tso compreso), per gli abusi di polizia e carabinieri, per la repressione della conflittualità sociale. La Corte europea dei diritti umani, proprio oggi, ha respinto la richiesta del governo italiano di composizione amichevole nel caso dei due detenuti torturati nel carcere di Asti. Nel novembre del 2015 il Governo Renzi ha proposto un risarcimento pari a 45mila euro per ciascuno dei due detenuti torturati ad Asti senza però prendere alcun impegno per risolvere la questione dell’assenza del crimine di tortura nel nostro ordinamento giuridico. La vicenda giudiziaria vide indagati quattro operatori di polizia penitenziaria, ma per nessuno venne condannato in quanto, non esistendo il reato di tortura, si procedette per reati di più lieve entità oramai prescritti. Il giudice nella sentenza scrisse che i fatti erano qualificabili come tortura ai sensi della Convenzione delle Nazioni Unite, ma che non potevano essere perseguiti come tali poiché in Italia non esisteva una legge che riconoscesse quel reato.
“Mio fratello nei verbali viene chiamato “energumeno”,”violento”… ecco come ci viene tolta la dignità dallo Stato” [Andrea Magherini]
Spiega l’eurodeputata Eleonora Forenza che solo l’Ucraina 13.650 ricorsi) ci batte in quanto a numero di ricorsi per casi di tortura come emerge dalla Relazione sullo stato di esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo nei confronti dello stato italiano, contro il nostro Paese sono stati presentati ben 10.100 ricorsi.
Però, mentre per la prima volta alcuni familiari di vittime prendono la parola in una sede istituzionale europea, nella periferia di Bruxelles qualcuno spara sulla polizia durante un’operazione antiterrorismo. Gli agenti dovevano perquisire un’abitazione di Forest, alle porte della capitale, nell’ambito dell’inchiesta sugli attacchi terroristici del 13 novembre 2015 a Parigi. Almeno un uomo ha cominciato a sparare con un kalashnikov, ferendo tre poliziotti. Poi è scappato sui tetti ed è ancora in fuga.
“Io sei anni e mezzo fa non avrei pensato di parlare al parlamento europeo della morte di mio fratello, ma pensavo di crescere e maturare con lui…” [Ilaria Cucchi]
L’operazione antiterrorismo delle forze speciali della polizia federale belga in collaborazione con la polizia francese è ancora in corso. Sempre più agenti presidiano la zona intorno alla strada dove è avvenuta la sparatoria che resta chiusa al pubblico ed è sorvolata costantemente da un elicottero. Gli abitanti dell’area sono stati invitati a restare in casa mentre due uomini sarebbero ancora in fuga sui tetti dopo lo scontro a fuoco verificatosi in seguito alla perquisizione effettuata in una casa di rue du Dries. Sulla stessa strada si trovano anche una scuola e un asilo, ma gli inquirenti garantiscono che la sicurezza dei due istituti e dei loro occupanti è garantita. «C’è ormai un’osmosi tra la centralità sicurezza pubblica e la sospensione della democrazia: questo che genera gli abusi che sentiamo raccontare oggi. Sono uno degli effetti del sovversivismo delle classi dirigenti», dice, citando Gramsci, Giovanni Russo Spena, giurista, ex deputato Prc, oggi attivo nell’Osservatorio Repressione che, insieme ai Giuristi democratici (per i quali è presente la giurista napoletana Elena Coccia) ha composto la delegazione di Acad.
“Il giudice che ha assolto i poliziotti che hanno sparato a mio fratello era lo stesso che lo ha condannato da morto” [Clauda Budroni]
La lotta al terrorismo, al pari della lotta alla criminalità, è la madre di tutte le tentazioni autoritarie come l’etat d’urgence in vigore i Francia, come la ley mordaza che sta intossicando da un anno l’aria dello stato spagnolo. Nei Paesi Baschi, anche prima della legge, la tortura è stata la normalità per i prigionieri politici. Una commissione d’inchiesta, composta soprattutto da medici forensi, ha catalogato almeno 1300 casi in 50 anni. Questo raccontano Iosi Juaristi Arduenz, deputato basco del Gue, e Miguel Urban di Podemos denunciando il peccato originale della democrazia spagnola: l’impunità per le torture e i crimini del franchismo, e quindi la continuità di quella cultura della polizia che considera le garanzie democratiche un inutile orpello che, addirittura, ostacola il lavoro degli operatori. Di questo parla anche una delle figure chiave di queste vicende, l’avvocato ferrarese Fabio Anselmo, di un sistema che ha tre punti di patologia: nel carcere, nell’uso delle armi e in quello della violenza negli arresti come dimostrano le storie che lui rappresenta in tribunale: quelle di Stefano Cucchi, Dino Budroni, Davide Bifolco, Aldo Bianzino, Ricky Magherini, Rachid Hassaragh. La sua voce si alterna alla messa in onda di materiali audio e video andando a comporre un catalogo che sembra infinito.
“Io sono figlio di nessuno. Figlio di quello che mi ha fatto lo Stato” [Rudra Bianzino]
E poi ciascuna delle vittime ripercorre la sua vicenda raccontando una storia che, mille racconti e anni dopo, li trova sempre con la stessa indignazione incredula e un dolore che sembra non poter mai essere scalfito. «In quelle aule siamo noi gli imputati. E siamo soli», dice Lucia Uva, la sorella di Giuseppe, vittima a sua volta dei «meccanismi di screditamento di testimoni, vittime e familiari», che caratterizzano tutti i casi di “malapolizia”: «Non sono processi come tutti gli altri», avverte Fabio Ambrosetti, legale nei casi Uva e Ferrulli. Prendono parola anche Domenica Ferrulli, la figlia di Michele, Claudia Budroni, la sorella di Dino, Rudra Bianzino, figlio di Aldo, Grazia Serra, la nipote di Francesco Mastrogiovanni e Andrea Magherini, il fratello di Riccardo. Tutti loro hanno una lunga scia di processi e poderose domande da rivolgere alla giustizia e alla politica perché nessuno debba passare quello che stanno passando loro. Girano l’Italia (e ora l’Europa) per far conoscere la propria storia, sono dovuti diventare competenti di diritto, medicina legale, procedure di arresto. Vorrebbero vivere in un paese che non uccida i loro cari anche nelle aule di tribunale, come dice Ilaria Cucchi. Vengono insultati pubblicamente da politici populisti e razzisti di primo piano, da leader sindacali della polizia, perfino dagli imputati dei rispettivi processi ma intorno a loro trovano anche un tessuto solidale come quello rappresentato da Acad. «Il loro dolore e la loro dignità sono riusciti ad aprire uno spazio pubblico di azione, riflessione e resistenza civile – dice Luca Blasi, uno degli attivisti di Acad salito a Bruxelles con un dossier sull’anomalia Italia dedicato a Giulio Regeni, gli ingredienti che hanno ucciso il giovane ricercatore italiano in Egitto sono i medesimi che uccidono sulle nostre strade e nelle nostre prigioni.
Gli abusi di polizia, il ricorso alla tortura e la repressione sono «l’altra faccia dell’Europa dell’austerità, dell’Europa Fortezza, della guerra», fa presente, a meno di quattro chilometri dal teatro degli scontri, Eleonora Forenza, deputata del Gue e promotrice di questa audizione. Il suo impegno ha radici nelle strade di Genova del 2001. Da allora ha dovuto «assaggiare più di una volta i manganelli delle polizie italiane». E ora, da deputata europea, ha iniziato a lavorare su un “libro bianco” sulla repressione in Europa, una mappa: «Il nostro obbiettivo è sollecitare la Commissione libertà civili del Parlamento europeo a produrre uno studio sull’Italia e avviare un’audizione in modo che la Commissione vada avanti con una procedura d’infrazione nei confronti del nostro Paese inadempiente sulla sanzione della tortura».
Intanto, la missione belga si conclude fuori dal palazzo del parlamento europeo con un incontro degli attivisti italiani e un collettivo di Bruxelles che si riunisce nella stessa sede in cui si trovavano gli esuli in fuga dal franchismo. Oggi è la Giornata internazionale «against the police brutality». Qui la celebrano, come pure in Svizzera, Canada e Usa. In Italia chissà, una delle ambizioni di Acad è quella di costruire una manifestazione nazionale contro gli abusi, per una vera legge contro la tortura, per un numeretto sulle divise di chi opera in ordine pubblico.

L’Italia che tortura: ecco perché Acad va a Bruxelles

Troppi abusi di polizia, un codice penale su misura per lasciarli impuniti, l’inarrivabile legge sulla tortura. Le ragioni della delegazione di Acad a Bruxelles su invito dell’eurodeputata Eleonora Forenza
di Checchino Antonini popoffquotidiano.it

C’è un ragazzo di Teramo, Davide Rosci, che sta scontando dieci anni di galera perché l’hanno fotografato mentre rideva troppo vicino a un blindato dei carabinieri in fiamme, il 15 ottobre del 2011 a Piazza San Giovanni. C’è un carabiniere calabrese che non ha subìto nemmeno un processo per aver sparato a Carlo Giuliani a Genova nel 2001 sebbene un filmato spieghi molto di più delle foto che hanno “inchiodato” Rosci. C’è Rachid, un detenuto che ha registrato le minacce e i commenti agghiaccianti dei suoi carcerieri: da quattro anni migra da un carcere all’altro, ora è a Lucca, e sta subendo una decina di processi fotocopia per reati mai commessi ma puntualmente denunciati dalla polizia penitenziaria. Rachid registra e denuncia perché «non voglio fare la fine di Cucchi», ha spiegato in una delle Aule. C’è l’ex moglie di un carabiniere intercettata mentre rimprovera l’ex marito di essersi «divertito a pestare un drogato di merda». Si trattava di Stefano Cucchi e sua sorella Ilaria da sei anni si batte per un vero processo. Come Lucia, sorella di Giuseppe Uva, morto per le conseguenze dell’arresto. O come Domenica, figlia di Michele Ferrulli. Quattro poliziotti, invece, sono ancora in servizio nelle questure del Nordest (al pari dei loro colleghi reduci dalla Diaz e da Bolzaneto), sebbene tre processi li abbiano definitivamente condannati per l’omicidio di Federico Aldrovandi. Condanna lieve, tre anni e mezzo, poche settimane scontate. Per le commissioni disciplinari il fatto non comporta disonore alla divisa. Anzi, i quattro vengono trattati da eroi nei raduni sindacali di Sap e Coisp.
Il comando generale dei carabinieri, invece, ha appena annullato, con una circolare inspiegabile, l’indicazione di evitare qualsiasi forma di compressione toracica di un soggetto arrestato. Eppure Riccardo Magherini, Aldro, Riccardo Rasman e Michele Ferrulli sono morti proprio in quella posizione, i primi per asfissia posturale, l’ultimo per attacco ipertensivo, non gli ha retto il cuore.
Da sempre, in Italia, le scale e le finestre più pericolose sono quelle delle questure e delle carceri e processare un uomo con la divisa è difficile come processare uno stupratore o un mafioso – ha avvertito il pm del caso Diaz, Enrico Zucca – perché scattano meccanismi di criminalizzazione delle vittime e di omertà travestita da “spirito di corpo”. Anche Fabio Anselmo – legale di Rachid Assaragh, delle famiglie Magherini, Cucchi, Budroni, Bifolco – punta spesso l’indice contro la «vittimizzazione secondaria, la colpevolizzazione della vittima: c’è una direttiva europea del 2012 che prova a ridurne i rischi». Ma in Italia non sembra essere sbarcata. Cucchi è sempre un drogato di merda, Bifolco (incensurato, ucciso a Napoli mentre guidava un motorino da un carabiniere che è “inciampato”) un camorrista, Dino Budroni uno stalker, Ferrulli un beone e Magherini un pazzo intossicato dalla cocaina. Purché non si metta in discussione la rispettabilità delle forze dell’ordine, la qualità del loro addestramento, la loro fedeltà alla Costituzione. «In quasi tutte queste storie, gli imputati in divisa sono stati oggetto delle indagini compiute dai loro stessi colleghi», dice ancora Anselmo chiedendosi «chi controlla i controllori?». La norma sull’uso legittimo della forza sottrae moltissimi autori di violenze dalla possibilità dell’incriminazione. Eventuali reati sono quasi sempre colposi.
«Possiamo parlare di “anomalia italiana” che ci fa vivere in uno stato d’eccezione non dichiarato – spiega Eleonora Forenza, giovanissima manifestante no global quindici anni fa e ora deputata europea per l’Altra Europa – un codice penale costruito su misura per criminalizzare il dissenso (una vetrina vale più di una vita umana) ha prodotto una montagna di diciottomila persone sotto processo per reati legati al conflitto sociale. L’ignavia dei governi degli ultimi trent’anni ha impedito che fosse varato un reato di tortura imprescrittibile e specifico dei pubblici ufficiali. E le lobby delle forze dell’ordine hanno bloccato che l’introduzione di un codice alfanumerico consentisse a un magistrato di identificare gli agenti travisati in ordine pubblico». L’anomalia italiana è anche il titolo di un dossier che Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa, presenterà a Bruxelles il 15 febbraio in un’audizione promossa dalla stessa Forenza, impegnata nella realizzazione di un Libro bianco sulla repressione in Europa, che vedrà protagonisti alcuni familiari di vittime di malapolizia, i loro legali e gli attivisti italiani che, subito dopo l’audizione, incontreranno attivisti belgi nella sede del Colectivo Garcia Lorca aperto negli anni ’30 dagli esuli spagnoli in fuga dal franchismo. «C’è uno scenario europeo in forte evoluzione, vedi lo stato d’eccezione francese – avverte Luca Blasi, uno degli attivisti di Acad – che si intreccia con l’anomalia italiana che è tale per il dato quantitativo degli abusi e per quello qualitativo: pm che non fanno indagini, reati cuciti su misura, assenza di provvedimenti disciplinari, retorica delle marce, abuso dei Tso e degrado delle carceri».
Il numero verde di Acad, per la segnalazione delle emergenze, squilla almeno una decina di volte ogni settimana. Gli attivisti seguono le udienze dei processi, negli Acadpoint vengono raccolte altre denunce, si tengono i contatti con i legali, si dà vita a dibattiti sugli abusi in divisa. Un lavoro di due anni che eredita il know how di altre esperienze, con cui Acad lavora spesso gomito a gomito, da Antigone ad Amnesty, dai Giuristi democratici all’Osservatorio Repressione.