ACAD

-Associazione Contro gli Abusi in Divisa – ONLUS –

Roma: Processo per l’omicidio di Stefano Cucchi

Dal presidio di Piazzale Clodio, l’Avv. Riccardo Bucci ci aggiorna di quanto è avvenuto nell’aula di udienza della Corte d’Assise di Roma e della solidarietà che centinaia di giovani hanno voluto portare alla famiglia di Stefano Cucchi, in occasione della riapertura del processo per la sua morte.
Continueremo con gli aggiornamenti.

Ascolta su: http://radiosonar.net/roma-processo-per-lomicidio-di-stefano-cucchi/

Federico Ovunque la campagna di Acad raccontata nel giorno del suo 4 anno di attività

Federico Ovunque!  17 febbraio 2018, a Roma, viene presentata la nuova campagna di tesseramento 2018 di Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa che compie 4 anni di attività
Federico Aldrovandi
Presentazione del cortometraggio prodotto da Acad “Noise” di Carmine Cristini e “Figli come noi” di Rosso Fiorentino


all’interno della campagna di tesseramento 2018 è per sostenere la mobilitazione di tante e tanti in modo da far apparire il volto di Federico Aldrovandi non solo all’interno degli stadi ma dappertutto, in ogni luogo denominata #FedericoOvunque.

Maggiori info :

  1. il sito di acad italia, come tesserarsi ?
  2. la presentazione della campagna di tesseramento 2018 
  3. Noise il cortometraggio di acad, intervista a Carmine Cristini, regista.
  4. Figli come Noi il Film di Rosso Fiorentino – recesione a cura di Nocturno

 

Sparò a migrante, rivista l’accusa

Reggio Calabria. Sekine Traorè venne ucciso a San Ferdinando dal colpo sparato da un carabiniere.

Dovrà rispondere del reato di eccesso colposo di legittima difesa Antonino Catalano, il carabiniere che l’8 giugno del 2016 ha ucciso nella tendopoli di San Ferdinando, in provincia di Reggio Calabria, il giovane 27enne rifugiato del Mali, Sekine Traorè.
Il processo avrà inizio il 2 maggio 2018 nel tribunale di Palmi. Competente sarà il giudice monocratico, essendo l’accusa relativa ai reati per i quali sono previste pene minori. I legali dell’imputato hanno avanzato la proposta di rito abbreviato condizionato all’esame degli altri tre carabinieri presenti. L’avvocato di parte civile si è opposto: «Sarebbe stata una prova tutta sbilanciata in favore dell’imputato dal momento che i carabinieri affermavano che la situazione era fuori controllo, contrariamente a quanto dichiarano i due poliziotti intervenuti che invece affermano che era sotto controllo al momento dello sparo». La proposta della difesa del carabiniere è stata rigettata dal giudice. Ammessa invece la costituzione di parte civile dell’Associazione Contro gli Abusi in Divisa che in dibattimento sarà rappresentata dall’avvocato Santino Piccoli.
Poco chiare sono apparse sin dal principio le circostanze che hanno portato all’uccisione del giovane migrante, raggiunto da un proiettile all’addome esploso dalla pistola del militare. Di sicuro all’interno della tenda adibita a bar improvvisato, si verificò una colluttazione per cause che adesso spetta all’autorità giudiziaria chiarire. Da una prima ricostruzione dei fatti, in preda a un raptus la vittima avrebbe più volte aggredito il carabiniere con un coltello, prima che il militare estraesse la pistola e facesse fuoco.
Sekine Traorè, che viveva in Francia, era sceso in Italia tre mesi prima per rinnovare il permesso di soggiorno. A San Ferdinando e nei dintorni, centinaia di africani sfruttati nella raccolta di agrumi e ortaggi, da anni vivono in condizioni di sostanziale apartheid. Nelle ore successive all’uccisione del giovane malese, i migranti manifestarono davanti al municipio del paese. Il presidio si protrasse per alcuni giorni all’ingresso della tendopoli, dove gli abitanti respinsero i camion di aiuti umanitari, in segno di indignazione. Un comitato spontaneo ha chiesto in questi mesi giustizia e verità per Sekine.

Claudio Dionesalvi
Il Manifesto 05.01.2018

Omicidio Casalnuovo, colpo di spugna in Cassazione

L’omicidio di Massimo Casalnuovo, la Cassazione annulla la condanna al maresciallo dei carabinieri. Tutto da rifare
di Checchino Antonini (da popoffquotidiano.it)
L’omicidio di Massimo Casalnuovo: tutto da rifare in sede giudiziaria. Per Osvaldo e Giovanna, per i loro figli, per tutti coloro che cercano di sostenerli riparte la mobilitazione per verità e giustizia. La Suprema Corte ha annullato la sentenza di secondo grado che aveva condannato il maresciallo Cunsolo a 4 anni e 6 mesi per il reato di omicidio preterintenzionale con interdizione di 5 anni dai pubblici uffici rimandando il giudizio alla Corte d’Assise d’Appello di Salerno per una nuova disamina. Tra quindici giorni la motivazione per capire le ragioni formali (la difesa ha parlato di un errore di notifica all’imputato) o di merito (i legali del maresciallo hanno insistito sulla tesi dell’adempimento del dovere: pare che si dovesse fermarlo ad ogni costo) che hanno convinto gli ermellini a cancellare la sentenza del 21 dicembre 2015 con cui la Corte d’Appello di Potenza condannò il Maresciallo a 4 anni e 6 mesi di reclusione e 5 anni di interdizione dai pubblici uffici per omicidio preterintenzionale, accogliendo la tesi della famiglia Casalnuovo, assistita dall’avvocato Cristiano Sandri.
Solo le attenuanti generiche consentirono un leggero sconto, sui cinque anni chiesti dal pm di Potenza, per il maresciallo che comandava la stazione dell’Arma di Buonabitacolo, nel salernitano. Il 20 agosto del 2011, durante un maldestro e violento controllo da parte di una pattuglia dei carabinieri, fu proprio il maresciallo a dare un calcio al motorino guidato dal giovane meccanico che cadde e morì. Senza una ragione se non l’abuso di potere commesso da un uomo in divisa. L’ennesima storia di malapolizia. La sentenza venne letta davanti al pubblico dopo un processo d’appello tutto a porte chiuse.
Osvaldo Casalnuovo, il padre di Massimo disse a Popoff che sperava potesse servire da monito per tutti gli altri casi. Attorno ai familiari, una cinquantina di persone: gente di Buonabitacolo, attivisti No Triv, di Libera e di Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa. Alcuni di loro c’erano anche oggi nelle lunghe ore di una sentenza pronunciata solo in tarda serata. «Finisce così – commenta Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa – la lunga giornata di oggi, con parecchio amaro in bocca e con l’annullamento della sentenza. Tra 15 giorni verranno rese pubbliche le motivazioni e su quelle, si capirà come procedere per il nuovo processo d’appello. Continua così questa lunga, infinita ed estenuante strada verso la giustizia…».
Chi ha visto ha rifertito con precisione di quel calcio sferrato dal maresciallo al motorino. Sotto la scarpa del maresciallo sono state riscontrate, dalla polizia scientifica di Roma, delle microparticelle della vernice blu del motorino. Un agente della stradale di Sala Consilina ha riferito dell’orma sul sellino del plantare della scarpa e dello sfondamento della scocca dello scooter. «Da parte nostra abbiamo fornito delle consulenze tecniche adeguate che spiegano la dinamica della caduta, la compatibilità con la scarsa velocità del mezzo e con la qualità del fondo stradale. Senza quel calcio mio figlio sarebbe stato ancora vivo».
“Il ragazzo viaggiava su uno scooter, era senza casco ma attenzione – si può leggere sulla scheda preparata da Acad – non è morto per aver sbattuto la testa (come si tende a far credere) ma per la violenta botta al torace. Massimo era appena uscito dall’officina in cui lavorava con il padre, non prendeva il motorino da un po’ di tempo. Lo aveva appena aggiustato. Era stato a fare un giro e stava tornando a casa. Non aveva indossato il casco. Lo fanno un po’ tutti a Buonabitacolo. Quella sera la pattuglia dei carabinieri con a bordo il maresciallo Giovanni Cunsolo e l’appuntato Luca Chirichella decide di controllare i ragazzi senza casco, ne fermano due: Elia Marchesano e Emilio Risi. I carabinieri mettono la macchina di traverso sulla strada e formano una specie di posto di blocco. Peccato che lo facciano dietro una curva. La “scena” si svolge sulla strada principale della città, via Grancia, che porta a una piccola piazza dove di sera si ritrova la gente del paese. Cunsolo è seduto dentro la gazzella e sta redigendo la contravvenzione. Massimo sta arrivando con il suo scooter Beta 50. Sin dal primo momento la versione dei due ragazzi fermati e quella del carabiniere sono opposte. Cunsolo dirà che Massimo, arrivato davanti al “posto di blocco”, accelera, quasi lo investe. Poi perde il controllo del ciclomotore e cade battendo la testa su un muretto a secco. I due ragazzi, interrogati la notte dell’“incidente” dal pm Sessa della Procura di Sala Consilina, hanno invece fornito un’altra versione: Cunsolo era dentro alla macchina, quando vede arrivare Massimo esce dall’auto e per fermarlo sferra un calcio sulla carena del motorino. E’ quel calcio che fa perdere l’equilibrio a Massimo che cade, e muore”.
La Corte di Potenza è dovuta ripartire da zero «ed è stato un bene – aveva detto a Popoff, Osvaldo Casalnuovo, alla vigilia dell’ultima udienza – anche il primo pm, nonostante avesse chiesto per iscritto di continuare a seguire il caso, è stato rimpiazzato dal procuratore capo di Potenza che però ha fatto sentire la sua voce solo in una requisitoria di dieci minuti per ridurre il capo di imputazione, “declassato” a omicidio colposo, e senza voler mai interrogare i testimoni».
In primo grado c’era stata un’assoluzione – il fatto non sussiste – ma con formula dubitativa. «Però le motivazioni erano così blande che la stessa procura di Salerno, oltre noi e il pm, ha impugnato quella sentenza. Il primo processo è stato un lampo», ricordava Osvaldo, cominciato e finito il 5 luglio 2013, non ha visto i testimoni e i consulenti tecnici deporre perché il giudice monocratico, senza mai motivare, ha rigettato tutte le richieste della parte civile. Quel giorno – poi non si sarebbe mai più visto in aula – il maresciallo imputato pronunciò le uniche due parole: «Sono innocente». In appello si sarebbe sempre avvalso della facoltà di non presentarsi.
«Il processo s’è svolto sulla base di niente, come se nel fascicolo non ci fossero atti. Invece ci sono e noi ci vogliamo attenere proprio a quei riscontri oggettivi: testimonianze, referti scientifici e consulenze tecniche – spiega Osvaldo che, quasi dal principio di questa vicenda è seguito dall’avvocato Cristiano Sandri, fratello di Gabriele, anche lui vittima in un caso di malapolizia – anche la procura di Salerno ha messo in risalto la presenza degli stessi dati oggettivi».
Subito dopo i fatti Cunsolo venne trasferito a Polla, a 40 km, con l’altro componente della pattuglia. Buonabitacolo non ha mai creduto alla versione ufficiale. Massimo lo conoscevano tutti. «Mai chiesto scusa – ha detto il padre del ragazzo ucciso – mai cercato un contatto con noi. Forse nemmeno l’avrei accettate perché non m’è sembrato mai di vedere in loro un segno di umiltà, nemmeno l’ammissione di aver svolto un posto di blocco secondo i protocolli».
“Tutto da rifare, quindi – commenta Ilaria Cucchi rivolgendosi a Osvaldo – provo ad immmaginare il tuo stato d’animo in questo momento e la sola cosa che posso dirti è che ti sono vicina e come me tanti altri. Per chi come noi ha deciso che valeva la pena non chiudersi nella rabbia e nell’odio ma ha provato a tramutare quell’odio e quella rabbia nel tentativo di rendere giustizia ai nostri cari, non solo per loro, ma per provare a rendere questa società migliore e meno ingiusta la strada è tutt’altro che semplice. Lo sapevamo. Sappi però che non siete soli». «Osvaldo so che non vi fermerete e noi con voi a chiedere giustizia per Massimo!», scrive anche Grazia Serra che, da anni, si batte per verità a giustizia sulla morte di suo zio, Franco Mastrogiovanni, ucciso in un letto di contenzione durante un Tso.

Processo Cucchi, i carabinieri fanno melina

Processo Cucchi alla prima udienza. I difensori dei carabinieri imputati per l’omicidio chiedono l’audizione di 271 testimoni per mandare in prescrizione i reati meno gravi

di Checchino Antonini
da popoffquotidiano.it

Processo Cucchi finalmente al via in Corte d’Assise e rinviato all’11 gennaio per sentire i testi citati dal Pm. Il giudice su richiesta del Pm ha disposto la richiesta delle prove testimoniali e subito una perizia per far luce sulla mole di conversazioni telefoniche e ambientali intercettate che finiranno nel fascicolo del dibattimento e ha fissato la prossima udienza riservandosi di decidere sulle liste di testi della difesa. In Corte d’assise ci sono imputati cinque carabinieri. Si tratta di Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, tutti accusati di omicidio preterintenzionale (si tratta dei militari che la procura indica come coloro che arrestarono Cucchi); in più c’è il maresciallo Roberto Mandolini, che risponderà dei reati di calunnia e falso, mentre lo stesso Tedesco, insieme con Vincenzo Nicolardi, di calunnia nei confronti di tre agenti della penitenziaria che furono processati per questa vicenda e poi assolti in maniera definitiva.
Il punto focale dell’udienza è stata la mole di prove testimoniali chieste. «Le liste testimoniali sono sovrabbondanti. È arrivato il momento di finire di fare confusione e di fare chiarezza. È passato fin troppo tempo», ha detto il Pm Giovanni Musarò, riferendosi soprattutto alle liste degli imputati Tedesco e D’Alessandro che contano rispettivamente di 217 e 251 nomi. Osservazioni, queste, condivise dai legali della famiglia Cucchi), e avversate dai difensori degli imputati. Poi, il deposito in aula di una memoria del Pm Musarò redatta per indicare i punti critici nelle liste testimoniali della difesa, ha portato i giudici a rinviare la loro valutazione alla prossima udienza per consentire alle difese di interloquire. Nel frattempo, però, i giudici hanno ritenuto necessario disporre una perizia, nominando tre tecnici ai quali hanno affidato l’incarico di trascrivere 350 conversazioni telefoniche e 12 ambientali. Dovranno elaborare le loro conclusioni entro il 4 gennaio; la settimana dopo, l’11 gennaio, si entrerà nel vivo, con la loro audizione e quella del primo degli investigatori.
Dalle spropositate liste di testi sembra delinearsi una linea scelta di difesa «verso il tranquillo approdo della prescrizione», dice a Popoff, Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi. Una sorta di «melina, quasi a palleggiare in dibattimento», come spiega anche uno degli attivisti di Acad presenti in aula, fino a riuscire a mandare in prescrizione i reati meno gravi. Per ora i giornalisti sono stati ammessi ma ciascuno dei difensori s’è scagliato contro il presunto linciaggio mediatico a cui sarebbero sottoposti i militari imputati solo otto anni dopo i fatti. Un vittimismo che non ha pezze d’appoggio visto che l’Arma fu sottratta allo sguardo degli inquirenti, prima da un proclama perentorio dell’allora ministro della difesa, il postfascista La Russa, poi da un’indagine che provò a declassificare questa faccenda macabra di “malapolizia” a semplice fatto di “malasanità”.
Ilaria: «La verità è in quest’aula, ma non sarà facile farla emergere»
«Ho fiducia che questa volta i responsabili della morte di mio fratello e di anni e anni di depistaggi saranno puniti. La verità è in quest’aula, ma non sarà facile farla emergere. Proveranno a confondere le acque, a dilatare i tempi. Noi siamo pronti a tutto», ha commentato Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E la mamma Rita: «Stefano merita giustizia perché non si può morire così e noi non ci fermeremo mai finché non sarà fatta giustizia. Lo abbiamo promesso a Stefano, davanti al suo corpo massacrato». «È iniziata la litania del vittimismo, del processo mediatico – ha detto l’avvocato storico della famiglia, Fabio Anselmo – ce l’aspettavamo; è la linea che tende a far sentire in colpa i giudici. Adesso ci aspettiamo le lamentele su un processo ‘già deciso’, e sappiamo che si tenterà di fare l’ennesimo processo a Stefano e alla sua famiglia. Non ci presteremo a questo gioco né al tentativo di far passare il concetto che per noi sul banco degli imputati c’è l’Arma dei Carabinieri. Non è così. L’Arma tutela le Istituzioni, non le tradisce».

Le tappe di una lunga inchiesta
Solo dopo molti anni, alla fine del 2015, venne fuori che un violentissimo pestaggio toccò a Stefano Cucchi già nella notte dell’arresto da parte di alcuni carabinieri del comando della stazione Appio che spuntò solo sei anni dopo nella ricostruzione dell’omicidio.
Solo nel luglio scorso fu certo che la vicenda sarebbe tornata in Corte d’assise la vicenda della morte di Stefano Cucchi, il geometra romano che nell’ottobre 2009 morì in ospedale una settimana dopo il suo arresto per droga. Settimana di calvario, secondo l’accusa, iniziata nell’opacità di una guardina dei carabinieri, dettagli di una notte spariti dagli atti per anni, finché la polizia giudiziaria non ha raccolto le testimonianze di due carabinieri e intercettato le confidenze di altri militari coinvolti e da oggi imputati. Il gup capitolino, Cinzia Parasporo ha disposto un nuovo processo nei confronti di alcuni membri dell’Arma che arrestarono Cucchi e che, per l’accusa, sarebbero i responsabili di un ‘pestaggio’ che il giovane avrebbe subito. Ci fosse una legge decente si potrebbe definire tortura ma le malizie bipartizan hanno annacquato un testo già ambiguo proprio poche ore prima della decisione del gup. Otto anni saranno passati dalla morte quando nell’aula bunker di Rebibbia rientreranno i familiari di Cucchi. In cerca di frammenti di verità e pezzetti di giustizia.
Con un documento di 50 pagine, la Procura aveva chiesto alla fine del 2015 la riapertura del caso, con un incidente probatorio, con un documento di 50 pagine per ricostruire tutti i fatti che hanno preceduto la morte di Cucchi, avvenuta il 22 ottobre del 2009 all’ospedale Pertini, «dopo aver subito nella notte tra il 15 e 16 ottobre un violentissimo pestaggio da parte dei carabinieri appartenenti al comando stazione Appia». Riemergeva con forza quello che era parso subito chiaro dalle primissime ricostruzioni e dalle evidenti contraddizioni dei carabinieri durante la prima inchiesta. Ma all’epoca, con un proclama perentorio, parve a tutti che il ministro della Difesa La Russa fosse intervenuto a gamba tesa per tenere lontana l’Arma da un’inchiesta.

Pestaggi e depistaggi
Imputati per il pestaggio di Cucchi i carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco indagati per lesioni aggravate e, per falsa testimonianza altri due carabinieri Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini.
Nella ricostruzione dell’accaduto e soprattutto sulle lesioni subite da Stefano Cucchi nelle carte si scrive che a pestarlo furono i carabinieri D’Alessandro, Di Bernardo e Tedesco. Il pestaggio avvenne in un arco temporale certamente successivo alla perquisizione domiciliare eseguita nell’abitazione dei genitori dello stesso Cucchi, un pestaggio che «fu originato da una condotta di resistenza posta in essere dall’arrestato al momento del fotosegnalamento presso i locali della compagnia Carabinieri Roma Casilina». Qui subito dopo la perquisizione domiciliare si legge nel documento Cucchi era stato portato. Secondo la ricostruzione fatta dal magistrato una volta nella caserma Casilina «fu scientificamente orchestrata una strategia finalizzata a ostacolare l’esatta ricostruzione dei fatti e l’identificazione dei responsabili per allontanare i sospetti dei carabinieri appartenenti al comando stazione Appia». In particolare nella ricostruzione decisa dai carabinieri «non si diede atto della presenza dei carabinieri Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo nella fase dell’arresto di Stefano Cucchi. Il nominato dei due militari infatti non compariva nel verbale di arresto, pur essendo gli stessi pacificamente intervenuti già al momento dell’arresto e pur avendo partecipato a tutti gli atti successivi».
Nel documento della Procura si sottolinea poi che «fu cancellata inoltre ogni traccia di passaggio di Cucchi dalla Compagnia Casilina per gli accertamenti fotosegnaletici e dattiloscopici al punto che fu contraffatto con bianchetto il registro delle persone sottoposte a fotosegnalamento». Poi si aggiunge che nel verbale di arresto non si diede atto del mancato fotosegnalamento e che Stefano Cucchi «non fu arrestato in flagranza per il delitto di resistenza a pubblico ufficiale perpetrato nei locali della compagnia carabinieri di Roma Casilina, nè fu denunciato per tale delitto. Omissione che può ragionevolmente spiegarsi solo con il fine di non fornire agli inquirenti alcun elemento che potesse spostare l’attenzione investigativa sui militari del comando stazione carabinieri di Roma Appia». Secondo il pubblico ministero fu taciuto agli altri carabinieri che avevano partecipato all’arresto di Cucchi.
Quei carabinieri sapevano di essere intercettati e «valutavano e suggerivano varie modalità per eludere operazioni tecniche in corso», si legge nell’informativa della Squadra mobile di Roma, finita nel fascicolo del gip che fissò l’incidente probatorio.

I carabinieri sapevano di essere intercettati
Due le modalità “suggerite” da alcuni degli indagati per eludere le intercettazioni alle quali temevano di essere sottoposti: l’utilizzo di “telefoni citofono” con utenze intestate a terzi estranei, e l’utilizzo dell’applicazione di messaggistica istantanea ‘Telegraf’ che consente di autocancellare i messaggi dopo l’invio. Nelle carte del fascicolo (si tratta di circa 3000 pagine), tante sono le intercettazioni trascritte degli indagati nell’inchiesta bis (si tratta di tre carabinieri indagati per lesioni aggravate e due carabinieri indagati per falsa testimonianza). Cucchi «non c’aveva niente? solo che non si drogava, non mangiava e non beveva il cuore si è fermato. Fratello, è questa la realtà». Così Roberto Mandolini, uno degli indagati. «’Sto ragazzo valeva un milione trecentoquarantamila euro che era un tossicodipendente? (alludendo al risarcimento pagato alla famiglia dal Pertini all’esito del primo processo. ndr)? Quando gente fa incidenti stradali… muoiono bambini che hanno una vita davanti che possono diventà scienziati e possono guadagnare molti soldi», dice invece Raffaele D’Alessandro, altro carabiniere.
Nello stesso dialogo intercettato, il carabiniere (che è uno dei due indagati per falsa testimonianza) parla con Raffaele D’Alessandro, indagato anche lui ma per lesioni aggravate. «Stava sotto dosaggio di antidolorifici… non lo so – dice – La diagnosi per la sua patologia non era nessuna assunzione di farmaci bensì solo riposo, quindi non c’aveva niente». E, confrontandosi con il collega sulle possibili cause di morte di Cucchi, «le perizie mediche dicono questo: che quella microlesione alla parte dietro, all’osso sacro, vista la sua magrezza può essere dovuta anche a una seduta forte». Una tesi, che viene anche spiegata dal carabiniere: «Cioè tu ti metti seduto fortemente no… e un caso su 55 milioni di casi ad un fisico così debilitato quella botta che può dare con la seduta quel picco di dolore può provocare un arresto cardiaco entro mezz’ora… lui è morto dopo una settimana».

La testimonianza dell’ex detenuto
Dalla lettura delle trascrizioni delle telefonate, c’è chi ipotizza un possibile movente del «violentissimo pestaggio». Un nuovo testimone, ascoltato per la prima volta dalla Procura di Roma nel novembre 2014 – Luigi L. di 46 anni, considerato attendibile dagli inquirenti, un ex detenuto che incontrò Cucchi nell’infermeria di Regina Coeli all’indomani dell’arresto racconta che era detenuto nella cella numero 3 al reparto Medicina dove vide passare Stefano «con la “zampogna” (gli effetti forniti dal Dap): bacinella, coperta, spazzolino ecc…). «Ricordo che si fermò davanti alla guardiola e io, quando lo vidi, immediatamente gli chiesi: “Chi ti ha ridotto così?”. Cucchi alzò gli occhi al cielo e non mi rispose; forse ebbe paura a rispondere davanti all’agente della polizia penitenziaria, ma ritengo che fosse una paura infondata. Aveva il viso tumefatto… era evidente che era stato picchiato. Aveva tutto il viso gonfio, anche all’altezza del naso. In passato ho visto tante persone picchiate, ma non avevo mai visto nulla del genere». Il giorno appresso, Luigi avrebbe rivisto Stefano: «Ricordo che non riusciva quasi a parlare, né a prendere il caffè, per come era ridotto. Aveva un forte dolore all’altezza della guancia destra… Aveva dolori dappertutto. Io in passato ho avuto diversi problemi con la polizia penitenziaria, per cui dissi al Cucchi che se era stata la Penitenziaria a ridurlo in quelle condizioni noi avremmo fatto un casino… Cucchi mi rispose che era stato picchiato dai carabinieri all’interno della prima caserma da cui era transitato nella notte dell’arresto. Aggiunse che era stato picchiato da due carabinieri in borghese, mentre un terzo, in divisa, diceva agli altri due di smetterla. Quando mi disse di essere già comparso davanti a un giudice, io gli chiesi la ragione per la quale non avesse denunciato in aula quanto accaduto, ma lui rispose che non l’aveva fatto perché dopo l’udienza sarebbe stato preso in carico nuovamente dai carabinieri che lo avevano arrestato, i quali, se avesse denunciato, lo avrebbero picchiato di nuovo. Chiesi a Cucchi quale fosse stata la ragione di un pestaggio così violento e lui rispose: “Perché, non lo sai? E che dovevo fare, tu l’avresti fatto?”. A quel punto compresi cosa intendeva dire e gli chiesi se gli avessero proposto di fare la fonte confidenziale (la “spia”) e lui aveva rifiutato; il Cucchi mi fece intendere che le cose erano andate così e rispose: “Più o meno è andata come dici tu”. A quel punto gli feci i complimenti e gli dissi: “Per me sei stato un grande”». Quando Stefano si tolse la maglietta restò impressionato, «sembrava una melanzana. In particolare faceva impressione la colonna vertebrale, che era di tanti colori (giallo, rosso, verde); aveva ecchimosi dappertutto».

I due carabinieri in borghese
Nell’informativa allegata alla richiesta di incidente probatorio, firmata dal capo della squadra mobile Luigi Silipo – Luigi L. «faceva riferimento a una circostanza che, nel momento in cui rendeva la dichiarazione, era ignota: il fatto che Cucchi avrebbe avuto un contatto diretto con due carabinieri in borghese». Un dettaglio svelato solo dalle nuove indagini; i due in borghese non comparivano nemmeno nei verbali d’arresto, non erano stati interrogati durante la prima inchiesta né al processo, e ora sono fra i nuovi indagati.
Il maresciallo Roberto Mandolini – all’epoca dei fatti comandante della stazione dei carabinieri Roma Appia, ora indagato per falsa testimonianza – rivela a una sua interlocutrice che Cucchi in altre occasioni era stato collaborativo con i carabinieri: «Perché qualche nome gliel’ha fatto, e gli ha fatto fare altri arresti». Un particolare che Mandolini non riferì al processo, come tacque sui altri dettagli che gli avrebbe riferito lo stesso Cucchi; per esempio i presunti cattivi rapporti tra Stefano, i genitori e la sorella «che da due anni non gli faceva vedere i nipotini». Ma chi è la misteriosa interlocutrice? Una delle possibilità è che Mandolini, sapendo di essere intercettato, può aver tentato di screditare la figura del detenuto morto. Anche perché Stefano, nel periodo immediatamente precedente all’arresto fatale, era stato a lungo in comunità e da lì non era facile fare la spia.

Caso Budroni: nuove perizie prima della sentenza d’appello

Omicidio Budroni, il giudice d’appello vuole capire il momento esatto dello sparo e la traiettoria del proiettile. Anselmo: «Aperta la porta verso la verità»
di Checchino Antonini
da popoffquotidiano.it

“Caso Budroni, oggi nessuna sentenza”, annuncia Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa, dalla sua pagina facebook. Il giudice ha deciso di rivedere il primo grado di giudizio attraverso altre perizie sulla dinamica degli eventi accaduti quella notte. La conferma da Fabio Anselmo, legale di parte civile in questo e altri processi di “malapolizia”: «Oggi la Corte d’Appello di Roma ha disposto perizia collegiale sulla ricostruzione della dinamica degli eventi che hanno portato all’uccisione di Dino Budroni. Accogliendo la tesi della famiglia è stata fatta carta straccia della perizia dei Ris di Roma che portò all’assoluzione dell’imputato sparatore in primo grado. Aperta la porta verso la verità». Il 16 Novembre alle ore 14.30 si riprende con il conferimento dell’incarico peritale.. Il giudice si è presentato in aula annunciando che si sarebbe avvalso della facoltà di rivedere il caso predisponendo nuovi esami tra cui una perizia fonica per individuare il momento dello sparo, una perizia balistica nuova per capire la traiettoria del proiettive, una revisione dell’autopsia.
Sarà dunque una maxiperizia ad accertare la dinamica dei fatti e far luce sulla morte di Bernardino Budroni, il giovane romano ucciso nel corso di un inseguimento con le forze dell’ordine nel luglio 2011 sul Gra di Roma. L’ha deciso la prima Corte d’appello di Roma, davanti alla quale è sotto processo Michele Paone, l’agente che all’alba del 30 luglio 2011 sparò e uccise Budroni, che fuggiva dalla polizia chiamata dalla ex fidanzata che l’accusava di stalking. In primo grado Paone fu assolto, con la formula ‘perché il fatto non costituisce reato’, avendo ritenuto il giudice monocratico che quell’azione era stata «adeguata e proporzionata» all’«entità della situazione». Oggi, in appello è stata accolta la richiesta del Pg di riapertura del dibattimento. I giudici hanno ritenuto necessario rivalutare la vicenda, disponendo in primo luogo «un’analisi fonica delle registrazioni delle conversazioni intercorse fra gli operanti al momento del fatto, ed in particolar modo fra quelli appartenenti al personale dei Carabinieri e la centrale operativa, al fine di acquisire non solo il preciso tenore delle conversazioni ma anche per individuare i rumori di fondo che si percepiscono collocandoli ove possibile nel loro esatto momento di produzione» e chiamando il medico legale che effettuò l’autopsia per approfondire alcuni aspetti dell’accertamento». La Corte, quindi ha ritenuto necessario disporre una perizia tecnica per «ricostruire la dinamica complessiva dell’inseguimento in cui rimase coinvolto Budroni», individuando «tempi e modalità dell’esplosione dei colpi di arma da fuoco da parte dell’imputato rispetto alla dinamica complessiva della fase finale della vicenda» e «le traiettorie seguite dal/i proiettile/i che attinsero il Budroni rilevandone il tramite e le rispettive traiettorie percorse e la posizione dell’imputato, della vittima e dei rispettivi veicoli al momento dell’esplosione del/i colpo/i esplosi».
L’omicidio di Dino Budroni è tornato davanti ai giudici della Corte d’Appello dopo l’assoluzione del poliziotto dall’accusa di eccesso colposo di uso legittimo delle armi. L’accusa deriva dal fatto che il 30 luglio del 2011 durante un inseguimento sparò, uccidendolo, a Bernardino Budroni durante un inseguimento avvenuto sul Grande raccordo anulare. Il pubblico ministero Giorgio Orano sostiene che l’accusa di eccesso colposo di uso legittimo delle armi era pienamente fondata, chi ha ritenuto infondata l’accusa ha finito “per attribuire una patente di assoluta liceità a una condotta, quella di Paone, che appare frutto di un evidente errore valutativo, ancor prima che esecutivo, attribuibile a grave imperizia e imprudenza”.
Le motivazioni dell’assoluzione in primo grado, undici pagine, erano sembrate una memoria dei difensori dell’agente, un ragazzo di trent’anni che nemmeno doveva trovarsi lì, quella notte, al posto accanto al guidatore. L’autista della Volante 10 doveva essere lui e non avrebbe sparato. Lui dice che avrebbe sparato perché la macchina di Budroni, che inseguiva da una ventina di chilometri, gli sarebbe potuta sgusciare ancora con una manovra repentina. A un suo collega è parso di sentire lo sparo nella fase del rallentamento, «ad una velocità diminuita ma ancora ragguardevole, forse di circa cento all’ora». Ma un carabiniere ha dichiarato che appena sentito i colpi «ci siamo fermati… girandomi ho visto il Budroni che era seduto». Il nodo è questo, uno dei nodi, almeno. Budroni era in corsa oppure era incastrato? «Budroni si è buttato sulla destra con l’intenzione, probabilmente, di prendere quell’uscita; io così ho avuto il modo di stringerlo contro il guardrail costringendolo a rallentare fino a fermarsi». Fino a fermarsi.
Queste parole del conducente della gazzella dei carabinieri e le carte del pm spiegano la posizione di tre vetture (una dei carabinieri di traverso, una della polizia a sinistra – la volante 10 – e l’altra dietro la Focus di Dino Budroni ormai incastrata e di traverso, a pochi millimetri dal guardrail di destra e a pochi centimetri da quella davanti, dei CC). Ma il giudice che ha assolto l’agente ha scritto che: «In ragione del tenore della ricostruzione dell’episodio fornita dai predetti CC risulta inoltre incontrovertibile che il Budroni, dopo essere stato colpito, è riuscito ad arrestare la sua Focus, inserendo addirittura e verosimilmente la prima marcia e il freno a mano, e ad alzare le mani, in seguito all’intimazione rivoltagli dal CC Giudici, prima di accasciarsi sul sedile di destra». Chi ha assolto il poliziotto ritiene che l’imputato abbia davvero inteso colpire la ruota posteriore sinistra della Focus e che si sia deciso a sparare solo alla fine di un lungo inseguimento «una volta resosi conto del folle comportamento del predetto». Ma come? Il carabiniere sembra preciso quando dice che «ci siamo fermati, direi quasi contemporaneamente all’arresto dei veicoli ho sentito due colpi di pistola… mi ponevo proprio davanti la vettura di Budroni. Vedevo il Budroni immobile e mi parve alzare le mani in segno di resa, subito dopo però lo stesso si è accasciato». Era fermo, pare. Erano ormai fermi.
La pubblica accusa aveva sostenuto che l’agente ha sparato male, ha sparato due volte, ha sparato quando non era necessario, senza che glielo ordinasse nessuno e aveva chiesto due anni e sei mesi. Pochi per Anselmo, legale dei familiari della vittima, che aveva provato a dire che non fu eccesso doloso perché non è vero che l’agente sparò in rapida successione: le macchine erano ferme e l’angolazione degli spari dimostrerebbe che non si può liquidare la morte di un uomo come eccesso in un’azione legittima. Ma il difensore del poliziotto ha sostenuto che l’auto di Budroni correva ancora quando il suo cliente ha sparato. Due film completamente diversi e al giudice è talmente piaciuto il secondo che nelle motivazioni della sentenza non sembrano esserci tracce dell’impianto e delle ragioni della pubblica accusa. E, invece, si dilunga, nella brevità complessiva, nella descrizione di quanto accaduto venti chilometri più a sud del luogo del delitto, quando Dino era così fuori di sé da minacciare gravemente la sua ex convivente e danneggiare il suo portone.
Quella descrizione è servita per sostenere che sparare era una mossa «adeguata e proporzionata» al contesto, per interrompere «quel comportamento di grave e prolungata resistenza». Ma in tanti dicono che era ormai già fermo, che la missione era compiuta si sarebbe potuto dire con successo, senza nemmeno brandire le armi.
In casi come questi la formula magica è «uso legittimo delle armi» perché il comportamento di Budroni è «indubbiamente da qualificare come una reiterata resistenza caratterizzata da entrambi gli elementi della violenza e della minaccia perpetrata nei confronti degli agenti». Le motivazioni dicono che la posizione del corpo al momento in cui fu colpito, era quella di chi sta per sterzare a destra per fuggire. Ma era già incastrato e pressoché fermo e pare impossibile che in quella posizione potesse essere una minaccia per il traffico blando di quelle ore dell’ultima parte della notte: la macchina, sul lato del paracarri non ha un graffio, dall’altra ha i segni del contatto con le volanti. La radio di bordo ha registrato le voci degli agenti: «Vagli addosso!». Le motivazioni dicono il contrario, che «il Budroni tentava di collidere con improvvise sterzate finché non impattava con la Beta Como», l’altra auto della polizia.
Oggi una nuova svolta del processo.