ACAD

-Associazione Contro gli Abusi in Divisa – ONLUS –

Processo Cucchi, i carabinieri fanno melina

Processo Cucchi alla prima udienza. I difensori dei carabinieri imputati per l’omicidio chiedono l’audizione di 271 testimoni per mandare in prescrizione i reati meno gravi

di Checchino Antonini
da popoffquotidiano.it

Processo Cucchi finalmente al via in Corte d’Assise e rinviato all’11 gennaio per sentire i testi citati dal Pm. Il giudice su richiesta del Pm ha disposto la richiesta delle prove testimoniali e subito una perizia per far luce sulla mole di conversazioni telefoniche e ambientali intercettate che finiranno nel fascicolo del dibattimento e ha fissato la prossima udienza riservandosi di decidere sulle liste di testi della difesa. In Corte d’assise ci sono imputati cinque carabinieri. Si tratta di Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, tutti accusati di omicidio preterintenzionale (si tratta dei militari che la procura indica come coloro che arrestarono Cucchi); in più c’è il maresciallo Roberto Mandolini, che risponderà dei reati di calunnia e falso, mentre lo stesso Tedesco, insieme con Vincenzo Nicolardi, di calunnia nei confronti di tre agenti della penitenziaria che furono processati per questa vicenda e poi assolti in maniera definitiva.
Il punto focale dell’udienza è stata la mole di prove testimoniali chieste. «Le liste testimoniali sono sovrabbondanti. È arrivato il momento di finire di fare confusione e di fare chiarezza. È passato fin troppo tempo», ha detto il Pm Giovanni Musarò, riferendosi soprattutto alle liste degli imputati Tedesco e D’Alessandro che contano rispettivamente di 217 e 251 nomi. Osservazioni, queste, condivise dai legali della famiglia Cucchi), e avversate dai difensori degli imputati. Poi, il deposito in aula di una memoria del Pm Musarò redatta per indicare i punti critici nelle liste testimoniali della difesa, ha portato i giudici a rinviare la loro valutazione alla prossima udienza per consentire alle difese di interloquire. Nel frattempo, però, i giudici hanno ritenuto necessario disporre una perizia, nominando tre tecnici ai quali hanno affidato l’incarico di trascrivere 350 conversazioni telefoniche e 12 ambientali. Dovranno elaborare le loro conclusioni entro il 4 gennaio; la settimana dopo, l’11 gennaio, si entrerà nel vivo, con la loro audizione e quella del primo degli investigatori.
Dalle spropositate liste di testi sembra delinearsi una linea scelta di difesa «verso il tranquillo approdo della prescrizione», dice a Popoff, Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi. Una sorta di «melina, quasi a palleggiare in dibattimento», come spiega anche uno degli attivisti di Acad presenti in aula, fino a riuscire a mandare in prescrizione i reati meno gravi. Per ora i giornalisti sono stati ammessi ma ciascuno dei difensori s’è scagliato contro il presunto linciaggio mediatico a cui sarebbero sottoposti i militari imputati solo otto anni dopo i fatti. Un vittimismo che non ha pezze d’appoggio visto che l’Arma fu sottratta allo sguardo degli inquirenti, prima da un proclama perentorio dell’allora ministro della difesa, il postfascista La Russa, poi da un’indagine che provò a declassificare questa faccenda macabra di “malapolizia” a semplice fatto di “malasanità”.
Ilaria: «La verità è in quest’aula, ma non sarà facile farla emergere»
«Ho fiducia che questa volta i responsabili della morte di mio fratello e di anni e anni di depistaggi saranno puniti. La verità è in quest’aula, ma non sarà facile farla emergere. Proveranno a confondere le acque, a dilatare i tempi. Noi siamo pronti a tutto», ha commentato Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E la mamma Rita: «Stefano merita giustizia perché non si può morire così e noi non ci fermeremo mai finché non sarà fatta giustizia. Lo abbiamo promesso a Stefano, davanti al suo corpo massacrato». «È iniziata la litania del vittimismo, del processo mediatico – ha detto l’avvocato storico della famiglia, Fabio Anselmo – ce l’aspettavamo; è la linea che tende a far sentire in colpa i giudici. Adesso ci aspettiamo le lamentele su un processo ‘già deciso’, e sappiamo che si tenterà di fare l’ennesimo processo a Stefano e alla sua famiglia. Non ci presteremo a questo gioco né al tentativo di far passare il concetto che per noi sul banco degli imputati c’è l’Arma dei Carabinieri. Non è così. L’Arma tutela le Istituzioni, non le tradisce».

Le tappe di una lunga inchiesta
Solo dopo molti anni, alla fine del 2015, venne fuori che un violentissimo pestaggio toccò a Stefano Cucchi già nella notte dell’arresto da parte di alcuni carabinieri del comando della stazione Appio che spuntò solo sei anni dopo nella ricostruzione dell’omicidio.
Solo nel luglio scorso fu certo che la vicenda sarebbe tornata in Corte d’assise la vicenda della morte di Stefano Cucchi, il geometra romano che nell’ottobre 2009 morì in ospedale una settimana dopo il suo arresto per droga. Settimana di calvario, secondo l’accusa, iniziata nell’opacità di una guardina dei carabinieri, dettagli di una notte spariti dagli atti per anni, finché la polizia giudiziaria non ha raccolto le testimonianze di due carabinieri e intercettato le confidenze di altri militari coinvolti e da oggi imputati. Il gup capitolino, Cinzia Parasporo ha disposto un nuovo processo nei confronti di alcuni membri dell’Arma che arrestarono Cucchi e che, per l’accusa, sarebbero i responsabili di un ‘pestaggio’ che il giovane avrebbe subito. Ci fosse una legge decente si potrebbe definire tortura ma le malizie bipartizan hanno annacquato un testo già ambiguo proprio poche ore prima della decisione del gup. Otto anni saranno passati dalla morte quando nell’aula bunker di Rebibbia rientreranno i familiari di Cucchi. In cerca di frammenti di verità e pezzetti di giustizia.
Con un documento di 50 pagine, la Procura aveva chiesto alla fine del 2015 la riapertura del caso, con un incidente probatorio, con un documento di 50 pagine per ricostruire tutti i fatti che hanno preceduto la morte di Cucchi, avvenuta il 22 ottobre del 2009 all’ospedale Pertini, «dopo aver subito nella notte tra il 15 e 16 ottobre un violentissimo pestaggio da parte dei carabinieri appartenenti al comando stazione Appia». Riemergeva con forza quello che era parso subito chiaro dalle primissime ricostruzioni e dalle evidenti contraddizioni dei carabinieri durante la prima inchiesta. Ma all’epoca, con un proclama perentorio, parve a tutti che il ministro della Difesa La Russa fosse intervenuto a gamba tesa per tenere lontana l’Arma da un’inchiesta.

Pestaggi e depistaggi
Imputati per il pestaggio di Cucchi i carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco indagati per lesioni aggravate e, per falsa testimonianza altri due carabinieri Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini.
Nella ricostruzione dell’accaduto e soprattutto sulle lesioni subite da Stefano Cucchi nelle carte si scrive che a pestarlo furono i carabinieri D’Alessandro, Di Bernardo e Tedesco. Il pestaggio avvenne in un arco temporale certamente successivo alla perquisizione domiciliare eseguita nell’abitazione dei genitori dello stesso Cucchi, un pestaggio che «fu originato da una condotta di resistenza posta in essere dall’arrestato al momento del fotosegnalamento presso i locali della compagnia Carabinieri Roma Casilina». Qui subito dopo la perquisizione domiciliare si legge nel documento Cucchi era stato portato. Secondo la ricostruzione fatta dal magistrato una volta nella caserma Casilina «fu scientificamente orchestrata una strategia finalizzata a ostacolare l’esatta ricostruzione dei fatti e l’identificazione dei responsabili per allontanare i sospetti dei carabinieri appartenenti al comando stazione Appia». In particolare nella ricostruzione decisa dai carabinieri «non si diede atto della presenza dei carabinieri Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo nella fase dell’arresto di Stefano Cucchi. Il nominato dei due militari infatti non compariva nel verbale di arresto, pur essendo gli stessi pacificamente intervenuti già al momento dell’arresto e pur avendo partecipato a tutti gli atti successivi».
Nel documento della Procura si sottolinea poi che «fu cancellata inoltre ogni traccia di passaggio di Cucchi dalla Compagnia Casilina per gli accertamenti fotosegnaletici e dattiloscopici al punto che fu contraffatto con bianchetto il registro delle persone sottoposte a fotosegnalamento». Poi si aggiunge che nel verbale di arresto non si diede atto del mancato fotosegnalamento e che Stefano Cucchi «non fu arrestato in flagranza per il delitto di resistenza a pubblico ufficiale perpetrato nei locali della compagnia carabinieri di Roma Casilina, nè fu denunciato per tale delitto. Omissione che può ragionevolmente spiegarsi solo con il fine di non fornire agli inquirenti alcun elemento che potesse spostare l’attenzione investigativa sui militari del comando stazione carabinieri di Roma Appia». Secondo il pubblico ministero fu taciuto agli altri carabinieri che avevano partecipato all’arresto di Cucchi.
Quei carabinieri sapevano di essere intercettati e «valutavano e suggerivano varie modalità per eludere operazioni tecniche in corso», si legge nell’informativa della Squadra mobile di Roma, finita nel fascicolo del gip che fissò l’incidente probatorio.

I carabinieri sapevano di essere intercettati
Due le modalità “suggerite” da alcuni degli indagati per eludere le intercettazioni alle quali temevano di essere sottoposti: l’utilizzo di “telefoni citofono” con utenze intestate a terzi estranei, e l’utilizzo dell’applicazione di messaggistica istantanea ‘Telegraf’ che consente di autocancellare i messaggi dopo l’invio. Nelle carte del fascicolo (si tratta di circa 3000 pagine), tante sono le intercettazioni trascritte degli indagati nell’inchiesta bis (si tratta di tre carabinieri indagati per lesioni aggravate e due carabinieri indagati per falsa testimonianza). Cucchi «non c’aveva niente? solo che non si drogava, non mangiava e non beveva il cuore si è fermato. Fratello, è questa la realtà». Così Roberto Mandolini, uno degli indagati. «’Sto ragazzo valeva un milione trecentoquarantamila euro che era un tossicodipendente? (alludendo al risarcimento pagato alla famiglia dal Pertini all’esito del primo processo. ndr)? Quando gente fa incidenti stradali… muoiono bambini che hanno una vita davanti che possono diventà scienziati e possono guadagnare molti soldi», dice invece Raffaele D’Alessandro, altro carabiniere.
Nello stesso dialogo intercettato, il carabiniere (che è uno dei due indagati per falsa testimonianza) parla con Raffaele D’Alessandro, indagato anche lui ma per lesioni aggravate. «Stava sotto dosaggio di antidolorifici… non lo so – dice – La diagnosi per la sua patologia non era nessuna assunzione di farmaci bensì solo riposo, quindi non c’aveva niente». E, confrontandosi con il collega sulle possibili cause di morte di Cucchi, «le perizie mediche dicono questo: che quella microlesione alla parte dietro, all’osso sacro, vista la sua magrezza può essere dovuta anche a una seduta forte». Una tesi, che viene anche spiegata dal carabiniere: «Cioè tu ti metti seduto fortemente no… e un caso su 55 milioni di casi ad un fisico così debilitato quella botta che può dare con la seduta quel picco di dolore può provocare un arresto cardiaco entro mezz’ora… lui è morto dopo una settimana».

La testimonianza dell’ex detenuto
Dalla lettura delle trascrizioni delle telefonate, c’è chi ipotizza un possibile movente del «violentissimo pestaggio». Un nuovo testimone, ascoltato per la prima volta dalla Procura di Roma nel novembre 2014 – Luigi L. di 46 anni, considerato attendibile dagli inquirenti, un ex detenuto che incontrò Cucchi nell’infermeria di Regina Coeli all’indomani dell’arresto racconta che era detenuto nella cella numero 3 al reparto Medicina dove vide passare Stefano «con la “zampogna” (gli effetti forniti dal Dap): bacinella, coperta, spazzolino ecc…). «Ricordo che si fermò davanti alla guardiola e io, quando lo vidi, immediatamente gli chiesi: “Chi ti ha ridotto così?”. Cucchi alzò gli occhi al cielo e non mi rispose; forse ebbe paura a rispondere davanti all’agente della polizia penitenziaria, ma ritengo che fosse una paura infondata. Aveva il viso tumefatto… era evidente che era stato picchiato. Aveva tutto il viso gonfio, anche all’altezza del naso. In passato ho visto tante persone picchiate, ma non avevo mai visto nulla del genere». Il giorno appresso, Luigi avrebbe rivisto Stefano: «Ricordo che non riusciva quasi a parlare, né a prendere il caffè, per come era ridotto. Aveva un forte dolore all’altezza della guancia destra… Aveva dolori dappertutto. Io in passato ho avuto diversi problemi con la polizia penitenziaria, per cui dissi al Cucchi che se era stata la Penitenziaria a ridurlo in quelle condizioni noi avremmo fatto un casino… Cucchi mi rispose che era stato picchiato dai carabinieri all’interno della prima caserma da cui era transitato nella notte dell’arresto. Aggiunse che era stato picchiato da due carabinieri in borghese, mentre un terzo, in divisa, diceva agli altri due di smetterla. Quando mi disse di essere già comparso davanti a un giudice, io gli chiesi la ragione per la quale non avesse denunciato in aula quanto accaduto, ma lui rispose che non l’aveva fatto perché dopo l’udienza sarebbe stato preso in carico nuovamente dai carabinieri che lo avevano arrestato, i quali, se avesse denunciato, lo avrebbero picchiato di nuovo. Chiesi a Cucchi quale fosse stata la ragione di un pestaggio così violento e lui rispose: “Perché, non lo sai? E che dovevo fare, tu l’avresti fatto?”. A quel punto compresi cosa intendeva dire e gli chiesi se gli avessero proposto di fare la fonte confidenziale (la “spia”) e lui aveva rifiutato; il Cucchi mi fece intendere che le cose erano andate così e rispose: “Più o meno è andata come dici tu”. A quel punto gli feci i complimenti e gli dissi: “Per me sei stato un grande”». Quando Stefano si tolse la maglietta restò impressionato, «sembrava una melanzana. In particolare faceva impressione la colonna vertebrale, che era di tanti colori (giallo, rosso, verde); aveva ecchimosi dappertutto».

I due carabinieri in borghese
Nell’informativa allegata alla richiesta di incidente probatorio, firmata dal capo della squadra mobile Luigi Silipo – Luigi L. «faceva riferimento a una circostanza che, nel momento in cui rendeva la dichiarazione, era ignota: il fatto che Cucchi avrebbe avuto un contatto diretto con due carabinieri in borghese». Un dettaglio svelato solo dalle nuove indagini; i due in borghese non comparivano nemmeno nei verbali d’arresto, non erano stati interrogati durante la prima inchiesta né al processo, e ora sono fra i nuovi indagati.
Il maresciallo Roberto Mandolini – all’epoca dei fatti comandante della stazione dei carabinieri Roma Appia, ora indagato per falsa testimonianza – rivela a una sua interlocutrice che Cucchi in altre occasioni era stato collaborativo con i carabinieri: «Perché qualche nome gliel’ha fatto, e gli ha fatto fare altri arresti». Un particolare che Mandolini non riferì al processo, come tacque sui altri dettagli che gli avrebbe riferito lo stesso Cucchi; per esempio i presunti cattivi rapporti tra Stefano, i genitori e la sorella «che da due anni non gli faceva vedere i nipotini». Ma chi è la misteriosa interlocutrice? Una delle possibilità è che Mandolini, sapendo di essere intercettato, può aver tentato di screditare la figura del detenuto morto. Anche perché Stefano, nel periodo immediatamente precedente all’arresto fatale, era stato a lungo in comunità e da lì non era facile fare la spia.

Terzo Memorial Stefano Cucchi

Domenica 1 ottobre dalle ore 10.00 presso il Parco degli Acquedotti (ingresso da via Lemonia-angolo circonvallazione Tuscolana) a Roma vi aspettiamo al TERZO MEMORIAL STEFANO CUCCHI
Tante associazioni e tanti ospiti saranno con noi in questo appuntamento annuale in ricordo di Stefano e in difesa dei diritti umani. E quest’anno l’evento cade proprio nel giorno in cui Stefano avrebbe compiuto 39 anni.
Un’iniziativa per ricordare Stefano, per chiedere verità e giustizia. Alle ore 10 partiranno una gara agonistica di 6 km e una corsa non agonistica di 3 km che si svolgeranno all’interno del Parco degli Acquedotti (ingresso Via Lemonia – angolo Circonvallazione Tuscolana).
Le iscrizioni alla corsa si possono fare sul sito della Uisp Roma (http://www.uisp.it/roma/) o anche direttamente la mattina dell’evento.
Alle ore 12.30 premiazioni e interventi dal palco dei vari ospiti “parole e musica per Stefano”
L’evento è organizzato dall’Associazione Stefano Cucchi Onlus in collaborazione con il Comitato Promotore Memorial Stefano Cucchi e con la Uisp Roma

Parteciperanno:
Jasmine Trinca
Mannarino
Chef Rubio
Assalti Frontali
Piotta
Edoardo Pesce
Daniele Vicari
Paolo Romano
Massimiliano D’Ambrosio

Adesioni associazioni:
Arci, Acad, Amnesty International Italia, Antigone, A Buon Diritto, Articolo 21, Rete NoBavaglio, Progetto Diritti, Associazione Detenuto Ignoto, Cittadinanzattiva, Baobab Experience, Runners 4 Emergency, Cies, Ass Culturale Via Libera, Cooperativa diversamente, Villetta Social Lab, Casetta Rossa Spa, Uisp, Libera Roma Presidio “Rita Atria” VII Municipio, Associazione Parte Civile- Marziani in movimento.
Durante il Memorial troverere gli stand delle varie associazioni che hanno aderito.
Media Partner:
Comune-Info

#CorriconStefano #giustiziapercucchigiustiziapertutti

Per informazioni:
Comitato Promotore Memorial Stefano Cucchi
comitato.stefanocucchi@gmail.com

Secondo memorial Stefano Cucchi

Un Paese civile ha una legge sulla tortura in sintonia con quanto stabilito dall’Europa in materia, un Paese civile tutela i soggetti più deboli e impegna le Istituzioni affinchè i diritti civili vengano promossi e rispettati, in un Paese civile i crimini commessi contro chi manifesta, come è successo a Genova nel 2001, vengono puniti, un Paese civile non può ammettere che Stefano Cucchi venga ucciso. La tortura viene praticata nel nostro Paese, lo dimostrano gli accadimenti che hanno visto come protagonisti troppo spesso persone delle Istituzioni e come vittime, giovani, lavoratori, oppositori politici, figure considerate ancora oggi sotto l’etichetta del ‘deviante’. Troppe le resistenze per l’approvazione di leggi in grado di tutelare i diritti civili e le libertà, troppe le resistenze per arrivare alla verità e alla giustizia nei processi per violenza che hanno visto come responsabili le forze dell’ordine.
Anche quest’anno ci sarà a Roma il Memorial in ricordo di Stefano Cucchi. Un’iniziativa per ricordare Stefano, per chiedere verità e giustizia. Domenica 2 ottobre alle 10 partiranno una gara agonistica di 6 km e una corsa non agonistica di 3 km che si svolgeranno all’interno del Parco degli Acquedotti (ingresso Via Lemonia – angolo Circonvallazione Tuscolana).
Dopo l’evento sportivo della mattina, nel pomeriggio ci saranno incursioni culturali, artistiche e musicali con Il Muro del Canto, nonchè attività e laboratori per i più piccoli. Partecipano, tra gli altri, Assalti Frontali, Ascanio Celestini, Daniele Vicari, Jasmine Trinca, Andrea Rivera, Giulio Cavalli, Alessio Cremonini, Paolo Romano, Massimiliano D’Ambrosio, Tiziano Scrocca, Silvia e Gaia Tortora, Ilaria Bonaccorsi, Stefano Anastasia e il Senatore Luigi Manconi.
Per il pranzo sarà allestita un’area ristoro con due ape car che offriranno prodotti tipici pugliesi e varietà di gelati.
Le magliette della competizione sportiva sono state realizzate da Makkox. Mentre la locandina anche quest’anno è di Zerocalcare.
Le iscrizioni alla maratona si possono fare sul sito della Uisp Roma (http://www.uisp.it/roma/index.php?contentId=1841) o anche direttamente la mattina dell’evento.
L’evento è organizzato dal Comitato promotore Memorial Stefano Cucchi in collaborazione con la Uisp Roma. Al #SecondoMemorialStefanoCucchi hanno aderito diverse realtà e associazioni come A Buon Diritto, Amnesty International, Runners for Emergency, ACAD Associazione Contro gli Abusi in Divisa – Onlus, Associazione Antigone, Libera Roma Presidio “Rita Atria” VII Municipio, Cittadinanzattiva Onlus, Baobab Experience, Officina Culturale Via Libera, Cooperativa Diversamente, Cies Onlus, Liberi Nantes, MEDU – Medici per i Diritti Umani, PID Onlus, Rete #NoBavaglio, Articolo 21, Associazione per i Diritti Umani e TILT.

Caso Cucchi, un perito (forse) massone e un maresciallo “felice”

Cucchi, slitta al 24 marzo l’incidente probatorio. La famiglia non si fida del perito: sarebbe o sarebbe stato massone. Il punto sull’inchiesta bis sulla morte di Stefano
di Checchino Antonini da popoffquotidiano.it

Sono state rinviate al 24 marzo prossimo a Bari, le operazioni peritali disposte dal gip di Roma Elvira Tamburelli per accertare la natura e le cause delle lesioni subite da Stefano Cucchi nell’ottobre del 2009 quando fu arrestato per droga. La perizia doveva iniziare ieri nell’ambito della seconda inchiesta bis sulla morte di Cucchi che coinvolge 5 carabinieri. A determinare il rinvio è stato un esposto della famiglia Cucchi nei riguardi del professor Francesco Introna che è a capo del collegio peritale nominato dal gip. Esposto che secondo quanto si è appreso è conseguente alla decisione del professor Vittorio Fineschi, capo dei consulenti della famiglia Cucchi di abbandonare l’incarico peritale per motivi di contrasto e inimicizia con il professor Introna. Introna risulterebbe iscritto alla massoneria – lui dice che lo è stato ma ora non più – oltre ad essere un esponente di Fratelli d’Italia, il partito di Ignazio La Russa, indimenticato ministro del governo Berlusconi che, alla morte di Cucchi, emise un proclama per tenere i carabinieri fuori dalle indagini. Il 24 marzo prossimo dovrebbero essere superati gli ostacoli e avviare le operazioni. Per quanto riguarda l’inchiesta bis, in particolare la posizione dei 5 carabinieri, 3 di questi sono indagati per lesioni personali aggravate e abuso d’autorità mentre gli altri 2 sono accusati di falsa testimonianza.
Gli inquirenti definiscono «elementi di dirompente novità» le scoperte che hanno portato cinque carabinieri a essere indagati per il pestaggio di Stefano Cucchi e per i successivi depistaggi: una «strategia scientificamente orchestrata per allontanare i sospetti dai carabinieri che lo arrestarono». L’incidente probatorio servirà a stabilire la natura e l’effettiva portata delle lesioni patite da Cucchi. Tre carabinieri lo avrebbero preso a calci e pugni facendolo cadere violentemente a terra fino a spaccargli la schiena all’altezza della quarta vertebra sacrale e della terza vertebra lombare. Furono le conseguenze di quelle botte a ucciderlo? A Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi, il quadro probatorio scaturito dall’indagine bis appare «imponente» ma i nomi indicati per la nuova perizia fanno tornare gli spettri della prima inchiesta, così “strabica” da lasciare i carabinieri sempre in un cono d’ombra e capace solo di fornire una perizia così inattendibile da non poter spiegare la morte del trentunenne romano, nel letto di un reparto di medicina penitenziaria, arrestato sei giorni prima. E’ stato il presidente della Società italiana di radiologia medica, a scoprire, poche settimane fa, che le perizie in possesso del tribunale erano inattendibili, basandosi su una risonanza magnetica inutile su un paziente deceduto e sull’esame della porzione sbagliata della colonna vertebrale di Stefano. Da lì scaturì la teoria dell’inanizione, della morte per fame e per sete, che depistò sia la corte sia la commissione d’inchiesta del senato che scambiò un caso di “malapolizia” per un più banale caso di malasanità.
In realtà la miscela velenosa che ha condotto alla morte un detenuto per droga è composta da molti ingredienti tossici. Eccone alcuni: il proibizionismo della Fini-Giovanardi, legge incostituzionale che ha sovraffollato le carceri italiane; la superficialità della burocrazia (quella carceraria perché non è stata nemmeno in grado di pesare e misurare l’altezza di Cucchi, 31 anni per 42 chili, facendolo risultare otto chili più pesante e sei centimetri più alto; quella giudiziaria che nemmeno s’è accorta che, all’udienza preliminare Cucchi risultava albanese, di cinque anni più anziano e senza fissa dimora).
Poi c’è quel settore della politica che fabbrica la paura (del diverso, del terrorista, dello zingaro, del migrante ecc…) e coccola a ogni costo il notevole bacino di voti degli elettori in divisa negando una legge decente contro la tortura o l’istituzione di un codice alfanumerico sulle divise di chi opera travisato in ordine pubblico.
Nelle ore successive alla morte di Cucchi, ad esempio, l’allora ministro della Difesa mise la mano sul fuoco: «Non ho strumenti per accertare, ma di una cosa sono certo: del comportamento assolutamente corretto da parte dei carabinieri in questa occasione». Il ministro in questione era Ignazio La Russa, Fratelli d’Italia, lo stesso partito di Franco Introna, professore dell’istituto di Medicina legale del Policlinico di Bari, appena nominato nel collegio che dovrà produrre la nuova perizia. Da qui il rifiuto del perito di fiducia dei Cucchi, il professor Fineschi, le perplessità di Anselmo per i legami di Introna con il team di Caterina Cattaneo, del Labanof di Milano, l’istituto che ha redatto la precedente perizia, e lo sfogo di Ilaria Cucchi: «C’è una legge che impone che tutti i periti e consulenti di parte pubblica nel processo Cucchi debbano per forza aver legami col signor La Russa?».
Un altro ingrediente della miscela è l’emergenza sicurezza, montata dai noti fabbricanti della paura, dentro cui maturano sia un’opinione pubblica spaventata sia una sub-cultura di forze dell’ordine reclutate ormai da quindici anni tra i reduci della guerra globale. E’ un veterano di parecchie missioni di “pace”, Roberto Mandolini, il comandante di stazione dei cinque, un maresciallo, a sua volta indagato per aver preso parte alla minuziosa strategia che, per sei anni, ha impedito di capire cosa fosse successo prima dell’udienza preliminare. E, stando alle carte, avrebbe scritto di suo pugno, in calce ad uno degli ordini di servizio contraffatto quella notte, un commento che ora suona agghiacciante e beffardo: “Bravi!” (pagina 47 della richiesta di incidente probatorio). “I carabinieri hanno fatto il loro dovere, arrestarono un grande spacciatore che spacciava fuori le scuole di un parco di Roma (…). Tutto il resto è speculazione politica per soldi e per arrivare in Parlamento”, taglia corto il maresciallo commentando in rete un articolo che ricostruisce i fatti.
«Le uniche chance delle difese sembrano ormai consistere nell’infangare la memoria di Stefano e della sua famiglia, dice ancora a Popoff, Fabio Anselmo, legale dei Cucchi e parte civile in altri casi di “malapolizia”: Aldrovandi, Magherini, Bifloco, Budroni, Ferrulli, Uva ecc… Anselmo teme che, come avviene in tutte le storie come questa, si ribaltino i ruoli. Perché processare qualcuno con la divisa è difficile come processare uno stupratore – lo hanno detto i due pm del processo Diaz in premessa alla loro lunghissima requisitoria – perché scatta sempre il riflesso condizionato di mettere sotto accusa la vittima. La vittima o i suoi familiari.
Roberto Mandolini “è felice”, faceva sapere facebook i primi giorni di gennaio proprio mentre tutti i giornali riferivano la denuncia contro Ilaria Cucchi da parte di un altro dei carabinieri sotto le lenti della procura. Dal suo profilo è evidentissimo l’attacco che teme Anselmo: «Ad oggi ho ricevuto quasi 3000 messaggi in privato di padri e madri di famiglia, di cittadini onesti, di persone che non delinquono nella vita per vivere, genitori attenti all’educazione dei figli (il neretto è mio, ndr)… ». Ecco cosa ha scritto sul caso Bifolco: “Con tutto il rispetto per il dolore di una madre per la perdita del figlio…..ma io a 17 anni, alle 03:00 di notte, non andavo in giro per la città in tre su un motorino rubato, senza assicurazione, senza patentino e in compagnia di un latitante e un pregiudicato. Io stavo a casa a dormire…..!!!! Mia madre diceva: “Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei…..”. Così anche il primo ottobre del 2014, commentando l’assoluzione dei poliziotti che causarono la morte di Domenico Ferrulli: «Finalmente una Corte che smentisce l’operato di alcuni PM……. Chi è causa dei suoi mali…..pianga se stesso……!!! Alle 20:00 si cena a casa e in famiglia e non si sta a schiamazzare ubriachi sotto le case della gente……». Le vittime, insomma, se la sono cercata.
Come moltissimi tutori dell’ordine anche il maresciallo sembra convinto di servire con onore uno stato, troppo permissivo, che non difende adeguatamente i propri servitori. Per esempio il post del 20 settembre 2014: “Le forze dell’ordine arrestano……e i giudici liberano…..!!!! È sempre stato così in Italia e sempre così sarà”.
Anche le intercettazioni dei suoi uomini forniscono uno spaccato inquietante della visione del mondo che li ispira: «Se mi congedano, te lo giuro sui figli miei, non sto giocando, che mi metto a fare le rapine (…). Vado a fare le rapine agli orafi, quelli là che portano a vedere i gioielli dentro le gioiellerie», dice uno dei tre indagati per il pestaggio, lo stesso che l’ex moglie rimprovera di essersi divertito a pestare Cucchi. Dirà la donna agli inquirenti che quel pestaggio non fu un caso isolato: «Quando raccontava queste cose Raffaele rideva e, davanti ai miei rimproveri, rispondeva “Chill è sulu nu drogatu e’ merda”».
Il comandante generale dell’Arma, Tullio Del Sette ha dichiarato recentemente: «Siamo determinati nel ricercare la verità, ma no alla delegittimazione dei Carabinieri». E questo è l’ultimo ingrediente della miscela: la teoria delle “mele marce” dietro cui si barricano i Comandi nei casi di abusi così evidenti da sfuggire agli insabbiamenti (i casi Bifolco, Cucchi, Uva e Magherini, solo per citare). Scrive alla ministra Pinotti un senatore del Pd, Luigi Manconi, presidente della commissione diritti umani: «Se c’è un problema nella cultura istituzionale dell’Arma dei Carabinieri e nei suoi rapporti con gli altri poteri dello Stato, se c’è un problema nella consapevolezza e nel rigoroso rispetto dei limiti ai propri poteri coercitivi da parte dei suoi appartenenti, il ministro della Difesa può e deve intervenire. Può e deve farlo richiamando l’intera catena di comando dell’Arma alla massima collaborazione istituzionale e l’intero corpo dei suoi appartenenti al pieno e intransigente rispetto dei diritti inviolabili delle persone fermate o tratte in arresto. Ne va della credibilità di una istituzione la cui lealtà e lo scrupolo nella osservanza delle leggi devono costituire un bene prezioso per tutti».