ACAD

-Associazione Contro gli Abusi in Divisa – ONLUS –

Caso Budroni: nuove perizie prima della sentenza d’appello

Omicidio Budroni, il giudice d’appello vuole capire il momento esatto dello sparo e la traiettoria del proiettile. Anselmo: «Aperta la porta verso la verità»
di Checchino Antonini
da popoffquotidiano.it

“Caso Budroni, oggi nessuna sentenza”, annuncia Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa, dalla sua pagina facebook. Il giudice ha deciso di rivedere il primo grado di giudizio attraverso altre perizie sulla dinamica degli eventi accaduti quella notte. La conferma da Fabio Anselmo, legale di parte civile in questo e altri processi di “malapolizia”: «Oggi la Corte d’Appello di Roma ha disposto perizia collegiale sulla ricostruzione della dinamica degli eventi che hanno portato all’uccisione di Dino Budroni. Accogliendo la tesi della famiglia è stata fatta carta straccia della perizia dei Ris di Roma che portò all’assoluzione dell’imputato sparatore in primo grado. Aperta la porta verso la verità». Il 16 Novembre alle ore 14.30 si riprende con il conferimento dell’incarico peritale.. Il giudice si è presentato in aula annunciando che si sarebbe avvalso della facoltà di rivedere il caso predisponendo nuovi esami tra cui una perizia fonica per individuare il momento dello sparo, una perizia balistica nuova per capire la traiettoria del proiettive, una revisione dell’autopsia.
Sarà dunque una maxiperizia ad accertare la dinamica dei fatti e far luce sulla morte di Bernardino Budroni, il giovane romano ucciso nel corso di un inseguimento con le forze dell’ordine nel luglio 2011 sul Gra di Roma. L’ha deciso la prima Corte d’appello di Roma, davanti alla quale è sotto processo Michele Paone, l’agente che all’alba del 30 luglio 2011 sparò e uccise Budroni, che fuggiva dalla polizia chiamata dalla ex fidanzata che l’accusava di stalking. In primo grado Paone fu assolto, con la formula ‘perché il fatto non costituisce reato’, avendo ritenuto il giudice monocratico che quell’azione era stata «adeguata e proporzionata» all’«entità della situazione». Oggi, in appello è stata accolta la richiesta del Pg di riapertura del dibattimento. I giudici hanno ritenuto necessario rivalutare la vicenda, disponendo in primo luogo «un’analisi fonica delle registrazioni delle conversazioni intercorse fra gli operanti al momento del fatto, ed in particolar modo fra quelli appartenenti al personale dei Carabinieri e la centrale operativa, al fine di acquisire non solo il preciso tenore delle conversazioni ma anche per individuare i rumori di fondo che si percepiscono collocandoli ove possibile nel loro esatto momento di produzione» e chiamando il medico legale che effettuò l’autopsia per approfondire alcuni aspetti dell’accertamento». La Corte, quindi ha ritenuto necessario disporre una perizia tecnica per «ricostruire la dinamica complessiva dell’inseguimento in cui rimase coinvolto Budroni», individuando «tempi e modalità dell’esplosione dei colpi di arma da fuoco da parte dell’imputato rispetto alla dinamica complessiva della fase finale della vicenda» e «le traiettorie seguite dal/i proiettile/i che attinsero il Budroni rilevandone il tramite e le rispettive traiettorie percorse e la posizione dell’imputato, della vittima e dei rispettivi veicoli al momento dell’esplosione del/i colpo/i esplosi».
L’omicidio di Dino Budroni è tornato davanti ai giudici della Corte d’Appello dopo l’assoluzione del poliziotto dall’accusa di eccesso colposo di uso legittimo delle armi. L’accusa deriva dal fatto che il 30 luglio del 2011 durante un inseguimento sparò, uccidendolo, a Bernardino Budroni durante un inseguimento avvenuto sul Grande raccordo anulare. Il pubblico ministero Giorgio Orano sostiene che l’accusa di eccesso colposo di uso legittimo delle armi era pienamente fondata, chi ha ritenuto infondata l’accusa ha finito “per attribuire una patente di assoluta liceità a una condotta, quella di Paone, che appare frutto di un evidente errore valutativo, ancor prima che esecutivo, attribuibile a grave imperizia e imprudenza”.
Le motivazioni dell’assoluzione in primo grado, undici pagine, erano sembrate una memoria dei difensori dell’agente, un ragazzo di trent’anni che nemmeno doveva trovarsi lì, quella notte, al posto accanto al guidatore. L’autista della Volante 10 doveva essere lui e non avrebbe sparato. Lui dice che avrebbe sparato perché la macchina di Budroni, che inseguiva da una ventina di chilometri, gli sarebbe potuta sgusciare ancora con una manovra repentina. A un suo collega è parso di sentire lo sparo nella fase del rallentamento, «ad una velocità diminuita ma ancora ragguardevole, forse di circa cento all’ora». Ma un carabiniere ha dichiarato che appena sentito i colpi «ci siamo fermati… girandomi ho visto il Budroni che era seduto». Il nodo è questo, uno dei nodi, almeno. Budroni era in corsa oppure era incastrato? «Budroni si è buttato sulla destra con l’intenzione, probabilmente, di prendere quell’uscita; io così ho avuto il modo di stringerlo contro il guardrail costringendolo a rallentare fino a fermarsi». Fino a fermarsi.
Queste parole del conducente della gazzella dei carabinieri e le carte del pm spiegano la posizione di tre vetture (una dei carabinieri di traverso, una della polizia a sinistra – la volante 10 – e l’altra dietro la Focus di Dino Budroni ormai incastrata e di traverso, a pochi millimetri dal guardrail di destra e a pochi centimetri da quella davanti, dei CC). Ma il giudice che ha assolto l’agente ha scritto che: «In ragione del tenore della ricostruzione dell’episodio fornita dai predetti CC risulta inoltre incontrovertibile che il Budroni, dopo essere stato colpito, è riuscito ad arrestare la sua Focus, inserendo addirittura e verosimilmente la prima marcia e il freno a mano, e ad alzare le mani, in seguito all’intimazione rivoltagli dal CC Giudici, prima di accasciarsi sul sedile di destra». Chi ha assolto il poliziotto ritiene che l’imputato abbia davvero inteso colpire la ruota posteriore sinistra della Focus e che si sia deciso a sparare solo alla fine di un lungo inseguimento «una volta resosi conto del folle comportamento del predetto». Ma come? Il carabiniere sembra preciso quando dice che «ci siamo fermati, direi quasi contemporaneamente all’arresto dei veicoli ho sentito due colpi di pistola… mi ponevo proprio davanti la vettura di Budroni. Vedevo il Budroni immobile e mi parve alzare le mani in segno di resa, subito dopo però lo stesso si è accasciato». Era fermo, pare. Erano ormai fermi.
La pubblica accusa aveva sostenuto che l’agente ha sparato male, ha sparato due volte, ha sparato quando non era necessario, senza che glielo ordinasse nessuno e aveva chiesto due anni e sei mesi. Pochi per Anselmo, legale dei familiari della vittima, che aveva provato a dire che non fu eccesso doloso perché non è vero che l’agente sparò in rapida successione: le macchine erano ferme e l’angolazione degli spari dimostrerebbe che non si può liquidare la morte di un uomo come eccesso in un’azione legittima. Ma il difensore del poliziotto ha sostenuto che l’auto di Budroni correva ancora quando il suo cliente ha sparato. Due film completamente diversi e al giudice è talmente piaciuto il secondo che nelle motivazioni della sentenza non sembrano esserci tracce dell’impianto e delle ragioni della pubblica accusa. E, invece, si dilunga, nella brevità complessiva, nella descrizione di quanto accaduto venti chilometri più a sud del luogo del delitto, quando Dino era così fuori di sé da minacciare gravemente la sua ex convivente e danneggiare il suo portone.
Quella descrizione è servita per sostenere che sparare era una mossa «adeguata e proporzionata» al contesto, per interrompere «quel comportamento di grave e prolungata resistenza». Ma in tanti dicono che era ormai già fermo, che la missione era compiuta si sarebbe potuto dire con successo, senza nemmeno brandire le armi.
In casi come questi la formula magica è «uso legittimo delle armi» perché il comportamento di Budroni è «indubbiamente da qualificare come una reiterata resistenza caratterizzata da entrambi gli elementi della violenza e della minaccia perpetrata nei confronti degli agenti». Le motivazioni dicono che la posizione del corpo al momento in cui fu colpito, era quella di chi sta per sterzare a destra per fuggire. Ma era già incastrato e pressoché fermo e pare impossibile che in quella posizione potesse essere una minaccia per il traffico blando di quelle ore dell’ultima parte della notte: la macchina, sul lato del paracarri non ha un graffio, dall’altra ha i segni del contatto con le volanti. La radio di bordo ha registrato le voci degli agenti: «Vagli addosso!». Le motivazioni dicono il contrario, che «il Budroni tentava di collidere con improvvise sterzate finché non impattava con la Beta Como», l’altra auto della polizia.
Oggi una nuova svolta del processo.

Omicidio Budroni: trasferito il giudice che voleva ridiscutere il reato

Omicidio Budroni. Nella scorsa udienza il giudice aveva chiesto di capire se fosse omicidio volontario e non colposo. Tre giorni fa è stato trasferito e l’udienza di oggi rimbalza a gennaio. Sconcerto dei familiari.
di Checchino Antonini

Doccia fredda per i familiari di Dino Budroni, stamattina, a Piazzale Clodio dove doveva tenersi la seconda udienza del processo d’appello per l’omicidio di Budroni. L’udienza è stata rinviata al 12 gennaio. «Il rischio è che sia un passo indietro rispetto alle speranze di rimetterre in discussione il reato contestato», commentano gli attivisti di Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa da sempre a fianco della famiglia Budroni. Al banco degli imputati, per omicidio colposo, un agente di polizia che ha freddato l’uomo nella notte fra il 30 e il 31 luglio del 2011 sul Gra di Roma al termine di un inseguimento. La Corte aveva rinviato, lo scorso aprile, la trattazione al 14 novembre, ma con il rinvio aveva rivolto l’invito a discutere in via preliminare un tema che era stato sottoposto dai familiari di Budroni già nel corso del primo grado: quello di Budroni è stato un omicidio colposo o un omicidio volontario, quindi commesso con dolo? Il poliziotto ha sparato accettando il rischio, possibile o probabile, di colpirle l’uomo? Ma stamattina i familiari e i loro legali hanno scoperto che il relatore che aveva sollevato la questione, il giudice Calabria, è stato trasferito da tre giorni ad altro incarico e il nuovo giudice, alle prese con un’udienza da 40 processi, non conosceva quasi nulla del caso e si profilava un ennesimo rinvio. «Nessuno ci aveva detto nulla e nemmeno il procuratore generale lo sapeva», spiega a Popoff, Fabio Anselmo, legale dei Budroni come anche di Cucchi, Magherini, Bifolco e molti altri casi di malapolizia. «Siamo fermi, capisco l’indignazione e lo sconcerto dei familiari di Dino».
La sentenza di primo grado aveva descritto uno scenario completamente diverso. L’agente, per il giudice estensore, aveva sì sparato colpendo mortalmente Budroni a seguito di un inseguimento sul grande raccordo anulare di Roma, ma era stato assolto per uso legittimo delle armi. Le motivazioni sposarono la tesi dell’avvocato della difesa per cui lo sparo sarebbe avvenuto quando le autovetture erano ancora in movimento – l’agente imputato ha sempre dichiarato di aver mirato alle ruote – ma poi riporta le testimonianze di uno dei carabinieri intervenuti che ha dichiarato di aver sentito gli spari quando tutti i mezzi erano quasi praticamente fermi.
«Oltre a questo – spiegarono a suo tempo Valentina Calderone di A Buon Diritto e Alessandra Pisa, legale di parte civile – il giudice, ha ritenuto di esaminare il caso “nel suo complessivo svolgimento e non già soltanto nell’ultima fase”. Come a dire: non ho provato che il pericolo fosse attuale e concreto, ma dato il comportamento di Budroni nelle fasi precedenti, l’agente ha fatto bene a sparare. Lo stesso giudice dovrebbe sapere, però, che nel nostro Paese non è più in vigore la pena di morte, e che se anche Budroni quella notte avesse commesso dei reati, avrebbe dovuto avere la possibilità di presentarsi davanti a un tribunale ed essere giudicato». Per questo l’udienza di aprile era stata accolta con soddisfazione dalla famiglia, che ha visto nelle parole della Corte un segno di estrema attenzione fino ad allora momento sempre negata.
La Corte d’appello si è posta un problema che rimette quindi in discussione non solo l’esistenza della responsabilità del poliziotto ma anche la gravità della stessa. Il trasferimento del giudice Calabria rischia di rimettere in discussione l’orientamento della Corte al punto da restituire la domanda se sia stata solo routine burocratica o una mossa ad hoc per disinnescare un processo di malapolizia.

Da: popoffquotidiano.it

Aggiornamento processo Budroni

L’udienza è stata rinviata al 14 Novembre alle ore 12.00, tra le principali motivazioni di questo rinvio c’è la reale possibilità di modificare il capo di imputazione da “Omicidio Colposo” a “Omicidio Volontario”. Qualora questo avvenisse la competenza per materia passerebbe alla Corte d’ Assise, corte composta anche da Giudici Popolari. Inoltre nel caso il capo di imputazione diventasse “omicidio volontario” si allungherebbero i tempi della prescrizione e quindi il processo potrebbe avere uno svolgimento con tempi utili all’approfondimento della vicenda e dei suoi molteplici aspetti controversi.

Ecco chi è il Dino dei manifesti. E’ una vittima di malapolizia

Nella notte un secondo manifesto sui muri di Roma. Si tratta di una campagna di Acad a ridosso dell’appello per l’omicidio di Dino Budroni. Sua sorella Claudia e Fabio Anselmo alla Camera
di Checchino Antonini da popoffquotidiano.it

«Dino è morto con le mani alzate dopo lo sparo di un poliziotto», «Con un colpo al cuore», «Dino era disarmato», «Freddato con un colpo al cuore». Nella notte sono spuntati altri manifesti sui muri di Roma e hanno chiarito il piccolo mistero che la prima ondata di manifesti «Lo sai cos’è successo a Dino?» aveva sollevato in città e sul web. Si tratta di una campagna di Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa, a ridosso dell’apertura, il prossimo 4 aprile, del processo d’appello per l’omicidio di Dino Budroni. Oggi sua sorella Claudia e il suo legale Fabio Anselmo, sono alla Camera dei deputati per una conferenza assieme ad Acad e al parlamentare Daniele Farina della commissione Giustizia.
Aveva fretta il giudice romano che, nel luglio 2014, ha assolto il poliziotto che ha sparato a Dino Budroni, doveva cambiare incarico, aveva fretta – probabilmente – di togliersi quel fardello di processo rognoso: un omicidio commesso da una persona con la divisa ai danni di un cittadino senza divisa che, perdipiù, aveva commesso quella notte un bel po’ di reati. Ma quando gli spararono, probabilmente era fermo.
Tre anni prima, il 30 dello stesso mese, Budroni era stato ucciso sul Raccordo anulare. La lettura della sentenza è stata un lampo tagliente per chi era lì ad attendere la sentenza. Un’ora e mezza di camera di consiglio e quella parola, «assolve», prima che il giudice sparisse nei meandri della città giudiziaria. Novanta giorni dopo le motivazioni, undici pagine, sembrano una memoria dei difensori dell’agente, un ragazzo di trent’anni che nemmeno doveva trovarsi lì, quella notte, al posto accanto al guidatore. L’autista della Volante 10 doveva essere lui e non avrebbe sparato. Lui dice che avrebbe sparato perché la macchina di Budroni, che inseguiva da una ventina di chilometri, gli sarebbe potuta sgusciare ancora con una manovra repentina. A un suo collega è parso di sentire lo sparo nella fase del rallentamento, «ad una velocità diminuita ma ancora ragguardevole, forse di circa cento all’ora». Ma un carabiniere ha dichiarato, ed è agli atti, che appena sentito i colpi «ci siamo fermati… girandomi ho visto il Budroni che era seduto». Il nodo è questo, uno dei nodi, almeno. Budroni era in corsa oppure era incastrato? «Budroni si è buttato sulla destra con l’intenzione, probabilmente, di prendere quell’uscita; io così ho avuto il modo di stringerlo contro il guardrail costringendolo a rallentare fino a fermarsi». Fino a fermarsi.
Le sentenze si rispettano, così si usa dire. Ma chi ha letto queste parole del conducente della gazzella dei carabinieri e le carte del pm non riesce a farsi una ragione delle motivazioni dato che ha stampata in mente la posizione di tre vetture (una dei carabinieri di traverso, una della polizia a sinistra – la volante 10 – e l’altra dietro la Focus di Dino Budroni ormai incastrata e di traverso, a pochi millimetri dal guardrail di destra e a pochi centimetri da quella davanti, dei CC). Ad esempio quando si legge: «In ragione del tenore della ricostruzione dell’episodio fornita dai predetti CC risulta inoltre incontrovertibile che il Budroni, dopo essere stato colpito, è riuscito ad arrestare la sua Focus, inserendo addirittura e verosimilmente la prima marcia e il freno a mano, e ad alzare le mani, in seguito all’intimazione rivoltagli dal CC Giudici, prima di accasciarsi sul sedile di destra». Chi ha assolto il poliziotto ritiene che l’imputato abbia davvero inteso colpire la ruota posteriore sinistra della Focus e che si sia deciso a sparare solo alla fine di un lungo inseguimento «una volta resosi conto del folle comportamento del predetto». Ma come? Il carabiniere sembra preciso quando dice che «ci siamo fermati, direi quasi contemporaneamente all’arresto dei veicoli ho sentito due colpi di pistola… mi ponevo proprio davanti la vettura di Budroni. Vedevo il Budroni immobile e mi parve alzare le mani in segno di resa, subito dopo però lo stesso si è accasciato». Era fermo, pare. Erano ormai fermi.
Chi pensa, ad esempio i familiari, che una sentenza del genere abbia ucciso una seconda volta Budroni, non riesce a capire perché quello sparo. Lo hanno detto i periti, i legali di parte civile (che sono Fabio Anselmo e Alessandra Pisa, veterani dal caso Aldrovandi di processi come questo e ora alle prese con i casi Cucchi e Magherini), la pubblica accusa che ha sostenuto che l’agente ha sparato male, ha sparato due volte, ha sparato quando non era necessario, senza che glielo ordinasse nessuno.

Il pm aveva chiesto due anni e sei mesi. Pochi per Anselmo, legale dei familiari della vittima, che aveva provato a dire che non fu eccesso doloso perché non è vero che l’agente sparò in rapida successione: le macchine erano ferme e l’angolazione degli spari dimostrerebbe che non si può liquidare la morte di un uomo come eccesso in un’azione legittima. Ma il difensore del poliziotto ha sostenuto che l’auto di Budroni correva ancora quando il suo cliente ha sparato. Due film completamente diversi ma al giudice è talmente piaciuto il secondo che nelle motivazioni della sentenza non sembrano esserci tracce dell’impianto e delle ragioni della pubblica accusa. E, invece, si dilunga, nella brevità complessiva, nella descrizione di quanto accaduto venti chilometri più a sud del luogo del delitto, quando Dino era così fuori di sé da minacciare gravemente la sua ex convivente e danneggiare il suo portone.
Servirà quella descrizione per sostenere che sparare era una mossa «adeguata e proporzionata» al contesto, per interrompere «quel comportamento di grave e prolungata resistenza». Ma in tanti dicono che era ormai già fermo, che la missione era compiuta si sarebbe potuto dire con successo, senza nemmeno brandire le armi.
In casi come questi la formula magica è «uso legittimo delle armi» perché il comportamento di Budroni è «indubbiamente da qualificare come una reiterata resistenza caratterizzata da entrambi gli elementi della violenza e della minaccia perpetrata nei confronti degli agenti». Le motivazioni dicono che la posizione del corpo al momento in cui fu colpito, era quella di chi sta per sterzare a destra per fuggire. Ma era già incastrato e pressoché fermo e pare impossibile che in quella posizione potesse essere una minaccia per il traffico blando di quelle ore dell’ultima parte della notte: la macchina, sul lato del paracarri non ha un graffio, dall’altra ha i segni del contatto con le volanti. La radio di bordo ha registrato le voci degli agenti: «Vagli addosso!». Le motivazioni dicono il contrario, che «il Budroni tentava di collidere con improvvise sterzate finché non impattava con la Beta Como», l’altra auto della polizia.
Il processo d’appello vedrà di nuovo le parti scontrarsi sulla domanda cruciale: era davvero necessario sparare quella notte? E poi perché Dino ha dovuto subire un processo da morto: un decreto penale del Tribunale di Tivoli, infatti, lo ha condannato nel marzo del 2014 al pagamento di un’ammenda di 150 euro, perché in casa aveva una carabina ad aria compressa e una balestra con frecce a punta metalliche non denunciate. Che fine ha fatto l’articolo 150 del Codice Penale, secondo cui la morte del reo estingue il reato?