ACAD

-Associazione Contro gli Abusi in Divisa – ONLUS –

Processo UVA: la Corte Europea dei Diritti Umani ha dichiarato ammissibile il ricorso

“Un calvario durato 13 anni”
Così Lucia Uva, sorella di Giuseppe Uva morto il 14 giugno 2008 dopo un fermo dei Carabinieri a Varese, ci dà la notizia: La Corte Europea dei Diritti Umani ha dichiarato ammissibile il ricorso presentato da Fabio Ambrosetti, Stefano Marcolini e Fabio Matera, i legali di Lucia Uva, per le seguenti motivazioni:
– Lo Stato italiano non si è adoperato a sufficienza per accertare i fatti perché la lunghezza del processo e l’imperizia delle indagini, non avrebbero consentito al raggiungimento della verità.
– Giuseppe Uva è stato sottoposto a trattamenti inumani e degradanti e comunque a maltrattamenti sia dal punto di vista psicologico che fisiologico in violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti Umani.
– Il legislatore italiano ha introdotto nell’ordinamento il reato di tortura solo nel 2017 e, senza questo colpevole ritardo, l’autorità giudiziaria avrebbe potuto disporre di strumenti più adeguati per la valutazione dei possibili comportamenti delittuosi.
– Nel secondo grado di processo, a carico degli appartenti alle forze dell’ordine ci si è limitati ai verbali di primo grado, senza che i testimoni venissero nuovamente ascoltati, in violazione di una precisa disposizione della stessa Cedu.
Oggi per noi è una domenica di sole.
Ricordiamo che la Cedu tende a dichiarare inammissibile l’80% dei ricorsi presentati.
Abbiamo sentito l’avvocato Fabio Ambrosetti, soddisfatto e di poche parole:
“Speriamo di trovare un giudice a Strasburgo”.
Il suo commento ironico lascia intendere che qualcosa in Italia non abbia ben funzionato.
Ancora una volta a fianco di Lucia e di tutta la famiglia Uva in questa ennesima battaglia per arrivare alla verità. Ci siamo e ci saremo!
Acad Onlus

Comunicato su Sentenza Uva

“Una sentenza sbagliata non diventa giusta solo perché confermata dalla Cassazione. Andremo alla Corte europea dei diritti dell’uomo”.
Apriamo questo comunicato con le parole dell’avvocato Fabio Ambrosetti perché ci pare il modo più sensato in mezzo a tanto rumore. Parole che ci donano una nota di speranza in questo avanzare nel buio: perché solo chi si ferma è davvero perduto.
Ripensiamo a quello che è successo ieri, andando oltre al dolore e al senso di impotenza che contraddistingue gran parte delle nostre battaglie.
Ce lo aspettavamo? Assolutamente SI.
Noi, i parenti, gli amici, lo sapevamo che sarebbe andata così. Eppure, fortunatamente, ci troviamo a NON ABITUARCI MAI. Ci troviamo continuamente a pensare a quali mezzi abbiamo noi “popolo” contro questa macchina inattaccabile di cui rientra anche quella parte di magistratura che non è in grado di giudicare i rappresentanti dello Stato in una maniera che sia onesta e corretta. Senza vergogna si continua a garantire l’impunità agli aderenti delle forze dell’ordine.
Ciò che è successo ieri, presso il tribunale di Roma, ovvero la conferma dalla Cassazione dell’assoluzione di sei poliziotti e due carabinieri per la morte di Giuseppe Uva, deceduto nel giugno del 2008, dopo essere stato portato in caserma a seguito di un controllo, era dunque prevedibile.
Gli imputati, accusati di omicidio preterintenzionale e sequestro di persona, erano stati assolti sia in primo grado che in Appello, con formula piena, nonostante per loro fossero state richieste pene molto alte in appello,: ricordiamo l’ottimo lavoro fatto dal Procuratore di Milano Massimo Gaballo.
Giuseppe è morto a 43 anni senza un perché, mentre era nelle mani di chi doveva proteggerlo.
Giuseppe che ieri muore nuovamente, nell’indifferenza delle istituzioni, nel labirinto oscuro della giustizia che gli viene ripetutamente negata perché non è importante trovare i colpevoli.
Giuseppe, pieno di lividi e fratture, con i segni di bruciature di sigaretta sul corpo, coi testicoli tumefatti che non può raccontarci cosa sia successo. Il suo corpo ha parlato per lui, come hanno parlato le testimonianze.
Non si può accettare tutto questo.
Si andrà avanti con ogni mezzo, al fianco della famiglia e di chi non si arrende.
ACAD – Onlus

Gli altri Stefano Cucchi – I casi di abusi in divisa ancora aperti in Italia

Nell’anniversario della morte di Stefano Cucchi, ricordiamo i casi di cittadini morti durante un’azione delle forze dell’ordine o sotto la loro custodia.
In questi giorni l’attenzione è di nuovo puntata sugli abusi delle forze dell’ordine grazie a un caso emblematico, il caso Cucchi, al film che ne è stato tratto e alla svolta processuale data dalla confessione del carabiniere Tedesco, che ha indicato i colleghi Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro come gli autori del pestaggio. Una svolta che Fabio Anselmo, avvocato della famiglia Cucchi—ma anche delle famiglie Aldrovandi, Uva, Magherini—ha definito “eclatante”, perché offre una “testimonianza diretta di chi ha assistito ai fatti,” ma non solo: “riferisce anche dei condizionamenti e delle intimidazioni subite, e di tutto quello che è successo dopo.”
Gli abusi in divisa, in realtà, sono un argomento che torna ciclicamente nella sfera mediatica, spinto da un nuovo caso o dalla pubblicazione di un rapporto sul numero di suicidi e morti sospette nelle carceri. Ciò che manca sempre è la volontà, soprattutto istituzionale, di costruire una riflessione più ampia, che non solo unisca tra loro i vari casi, ma li riconosca come il frutto di politiche sbagliate e di una mentalità comune costruita ad hoc, basata in primo luogo sulla criminalizzazione.
“La criminalizzazione della vittima è una costante nei casi di malapolizia,” spiega Checchino Antonini, giornalista e attivista di ACAD (Associazione contro gli abusi in divisa). “Di questi casi si tende a parlare in termini emotivi, della pena che si prova per l’una o per l’altra parte. Si parla di onore o disonore dell’Arma, e non si indaga, per esempio, il legame con il proibizionismo o con il razzismo. Non si mette in discussione il tipo di addestramento ricevuto e non si parla del fatto che da tempo è in atto una forte criminalizzazione dei conflitti sociali. L’ossessione per il decoro e un’emergenza sicurezza che è tutto meno che un’emergenza (visto che i reati sono in continuo calo) portano a una vera e propria repressione di alcuni stili di vita.” Il migrante, il tossico, l’attivista dei centri sociali, il senzatetto, lo spacciatore diventano tutte categorie percepite come zavorre sociali (della serie “mi dispiace che sia morto MA”). Leggi tutto

Omicidio Uva, pg in Cassazione contro assoluzioni

Caso Uva, ricorso in Cassazione della procura di Milano contro l’assoluzione di sei poliziotti e due carabinieri
di Checchino Antonini su popoffquotidiano.it
La procura generale di Milano ha presentato ricorso in Cassazione contro la sentenza sugli otto imputati, sei agenti e due carabinieri, assolti in appello «perché il fatto non sussiste» dall’accusa di omicidio preterintenzionale e sequestro di persona aggravato per la morte di Giuseppe Uva, l’uomo deceduto il 14 giugno 2008 all’ospedale di Varese, dopo che era stato fermato e portato in caserma dagli uomini dell’Arma per accertamenti. Il sostituto procuratore generale di Milano Massimo Gaballo, il quale aveva chiesto condanne fino a 13 anni di carcere, ha impugnato la sentenza dello scorso maggio dei giudici della prima sezione, chiedendo di riascoltare quattro testimoni, tra cui Alberto Biggioggero, l’amico di Uva presente la sera del fermo da parte dei carabinieri. Oltre alla richiesta di rinnovare l’istruttoria, nei motivi di appello viene contestata l’assoluzione dal reato di sequestro di persona e di omicidio preterintenzionale.
Il pg chiede quindi che la Cassazione annulli la sentenza impugnata e rinvii a un’altra sezione della corte d’assise d’appello per un nuovo giudizio. La famiglia della vittima è da sempre convinta che il decesso sia stato provocato dalle percosse e dalle manganellate inflitte all’uomo dalle forze dell’ordine che lo tenevano in custodia. Per i giudici, invece, è legittima la condotta di carabinieri e poliziotti intervenuti nel tentativo di contenere Uva che, insieme all’amico, stava dando in escandescenze. Uva, per i giudici, morì a causa di una patologia cardiaca e per lo stress per essere stato fermato in stato di forte ebbrezza alcolica.

Sentenza Uva, vergogna senza fine appello alla mobilitazione

La sentenza di assoluzione, emessa ieri a Varese che assolve gli agenti indagati per la morte di Giuseppe Uva, è di una gravità inaudita.
Giuseppe è stato fermato illegalmente, sequestrato e pestato.
Giuseppe era un uomo semplice, morto mentre era nelle mani dello Stato.
ACAD non accetta questa sentenza, non subirà in maniera passiva questa ingiustizia come crediamo non debba farlo il paese tutto.
Crediamo che ancora di più oggi vada gridata quella verità scomoda che Lucia non ha mai smesso di raccontare nelle aule di tribunale, nelle piazze e nelle strade fino al Parlamento Europeo lo scorso 15 Marzo.
Non accettiamo questa sentenza “A SORPRESA” orchestrata ad arte solo per impedire che ci fossero centinaia di persone e decine di associazioni a sentire insieme a Lucia questa vergognosa ingiustizia.
Chiediamo a tutti e a tutte di mobilitarsi innanzitutto sui social network postando la propria foto con scritto “#sappiamochièstato Giustizia per Giuseppe Uva” e inviarle alla pagina facebook di ACAD.
Inoltre chiediamo a tutte le realtà sociali di comunicare con ogni mezzo possibile la gravità di questa sentenza, le modalità con cui è stata emessa e il pericoloso precedente che rappresenta.
E’ tempo di rompere tutti silenzi, di ribellarsi all’impunità dilagante, di difenderci contro questa violenza inaudita.
Per difenderci tutti e tutte, per Giuseppe e tutte le vittime di abusi in divisa.

ACAD Associazione Contro gli Abusi in Divisa

Caso Uva, il colpo di spugna della pubblica accusa

La pm di Varese chiede l’assoluzione con formula piena degli otto, tra agenti di polizia e carabinieri, imputati per l’omicidio preterintenzionale di Giuseppe Uva
di Ercole Olmi popoffquotidiano.it

In due ore scarse la pm di Varese ha sostanzialmente liquidato il caso Uva, morto il 14 giugno del 2008. La requisitoria, infatti, s’è conclusa chiedendo l’assoluzione con formula piena dei carabinieri e degli agenti di polizia, in tutto otto imputati di omicidio preterintenzionale, perché non ci sarebbe prova delle percosse quindi nemmeno si porrebbe il nesso causale tra queste e il decesso dell’uomo avvenuto alcune ore dopo, il fermo in ospedale. Il pm ha voluto stroncare – almeno ci ha provato visto che le controdeduzioni della parte civile proveranno a smontarne il ragionamento il prossimo 29 gennaio – le perizie sulla causa di morte che i periti hanno individuato nella tempesta emotiva scatenata da percosse contenzione e stato alcolemico di Giuseppe Uva, la cosiddetta teoria del trigger. Tutto dentro un ragionamento che ha scelto, tra quelli forniti dalle testimonianze, solo gli argomenti non contraddicono la tesi assolutoria, il colpo di spugna su una oscura vicenda di malapolizia. Tra i passaggi più clamorisi quello in cui la pm ha sostenuto che Uva è stato arrestato ma solo momentaneamente privato della libertà per tutelare la sua salute e non continuasse a delinquere. Altrimenti c’era il rischio che si facesse male? Più male di come s’è sentito nelle mani di otto tutori dell’ordine, stando alla testimonianza dell’amico fermato con lui quella notte.
E nemmeno ci sarebbe la prova che i pantaloni sporchi di sangue, consegnati da Lucia Uva, la sorella dell’uomo morto, fossero gli stessi indossati quella sera. Lucia, inoltre, avrebbe toccato impropriamente il cadavere. Il processo rischia di rovesciarsi sulle vittime. L’unica consolazione, come segnala Fabio Ambrosetti, legale della famiglia Uva, l’ammissione che il pm in carica fino allo scorso anno, Agostino Abate, non ha fatto a suo tempo le indagini dovute.
Erano le 2,55 del 14 Giugno 2008, si può leggere sul sito di Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa che anche stamattina era presente in aula con alcuni attivisti: in una stanza del comando provinciale dei carabinieri di via Aurelio Saffi si trovava Giuseppe Uva denunciato a piede libero insieme al suo amico Alberto Biggiogero per “disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone.” Giuseppe quella sera era in giro per la città con il suo amico Alberto Biggiogero. Un po’ alticci i due arrivano all’altezza di via Dandolo e per goliardia spostano alcune transenne con l’intenzione di chiudere la strada al traffico. Ridono, urlano, fanno confusione, troppo per gli abitanti del quartiere che chiamano i carabinieri. Sul luogo arriva una gazzella con a bordo il brigadiere Paolo Righetto e l’appuntato capo Stefano Dal Bosco. La fase del fermo e dell’arresto – raccontata da Biggiogero – discorda con quella messa a verbale: all’arrivo della gazzella il brigadiere Righetto scende dalla macchina urlando: ”Uva proprio te cercavo stanotte, questa non te la faccio passare liscia, questa te la faccio pagare!”. Inizia quello strano inseguimento a piedi tra Uva e il brigadiere che quando lo raggiunge lo scaraventa a terra e comincia a malmenarlo. Alberto interviene ma viene spinto via e finisce addosso all’altro agente che lo schiaffeggia accusandolo di averlo urtato volontariamente. Nel frattempo Uva viene trascinato verso la gazzella e scaraventato sui sedili posteriori. Il brigadiere continuava a inveire contro di lui prendendolo a calci e pugni. Giuseppe chiede aiuto ma Alberto non può intervenire in quanto immobilizzato dal secondo agente. In quel frangente arrivano due volanti della polizia e viene intimato a Biggiogero di salire in macchina. Lui chiede di andare con il suo amico ma la polizia, per tutta risposta gli mostra il manganello e gli chiede se abbia voglia di provarlo. A quel punto la gazzella con Giuseppe parte e Alberto non vedrà più il suo amico vivo, il peggio deve ancora arrivare. In caserma Alberto sente distintamente le urla dell’amico, ogni volta che chiede di smetterla con il pestaggio viene minacciato dagli agenti fino a che non decide di chiamare il 118 dal suo cellulare per richiedere un ambulanza. L’operatore del 118 dice ad Alberto che avrebbe mandato l’ambulanza ma al termine della telefonata anziché inviare il mezzo il 118 chiama la caserma per avere conferma. Gli viene risposto che non c’è bisogno di alcuna ambulanza e che la chiamata è stata effettuata da due ubriachi a cui adesso avrebbero tolto il cellulare. Alle 6 sono gli stessi carabinieri a chiamare il 118 per far portar via Giuseppe Uva. Alle 11.10, otto ore dopo l’arresto e quattro dopo il ricovero Uva è un uomo morto.